domenica 10 novembre 2013

Conoscenza e saggezza di Bertrand Russell

Ritratti a memoria è l’edizione italiana, pubblicata da Longanesi nel 1969 nella traduzione di Raffaella Pelizzi, della raccolta Portraits from Memory and Other Essays, che Bertrand Russell (1872-1970) curò nel 1956. Il libro raccoglie una serie di conferenze, loro estratti, e articoli che il filosofo, logico e matematico inglese, uno dei più grandi intellettuali del Novecento, aveva scritto perlopiù negli anni del secondo dopoguerra. Sono presenti ricordi di personaggi che Russell aveva conosciuto sin dai tempi dell’università, come Ludwig Wittgenstein, Joseph Conrad, Herbert George Wells, David Herbert Lawrence, George Bernard Shaw, accanto ad articoli che ripercorrono ricordi d’infanzia e di giovinezza (come la scelta pacifista durante il primo conflitto mondiale, che gli costò il carcere e la perdita degli incarichi accademici), e considerazioni sulla politica mondiale dei suoi tempi, dominata dalla guerra fredda e dal pericolo di un olocausto nucleare. 

Gli ultimi articoli illustrano le sue posizioni su temi generali quali moralità, problema ontologico, dimostrazioni scientifiche, futuro dell'umanità, arte della scrittura, ricerca della felicità, trattati con lucidità e chiarezza espositiva. Tra questi scritti mi ha particolarmente colpito Conoscenza e saggezza, (Knowledge and Wisdom), un articolo in cui Russell espone idee tuttora condivisibili riguardo alla necessità che la saggezza, difficile equilibrio di responsabilità, altruismo, rigore, senso del limite, imparzialità, si deve accompagnare al progresso della conoscenza. Chi fa ricerca deve sempre tener presente questo richiamo alla consustanzialità di scienza e coscienza personale, qualunque sia il proprio pensiero filosofico, politico o religioso, oggi più che mai, perché “A ogni accrescimento della conoscenza e della tecnica, la saggezza diviene più necessaria, poiché ognuno di questi accrescimenti aumenta la nostra capacità di attuare i nostri scopi, e perciò aumenta la nostra capacità di far del male, se i nostri scopi non sono saggi”. La saggezza si può anche insegnare, a patto che non si confonda il processo educativo con la mera trasmissione di saperi.


I più converranno che, sebbene la nostra epoca sorpassi di gran lunga tutte le precedenti nella conoscenza, non c'è stato un correlativo aumento della saggezza. Ma l'accordo cessa non appena si tenta di definire la «saggezza» e di proporre i modi di darle impulso. Voglio prima domandarmi che cosa è la saggezza, e poi ciò che si può fare per insegnarla. 

Credo che parecchi fattori contribuiscano alla saggezza. Di questi metterei in primo luogo il senso delle proporzioni: la capacità di tener conto di tutti i fattori importanti di un problema e di attribuire a ciascuno di essi il peso dovuto. Questo è divenuto più difficile di quanto non fosse prima, per la vastità e complessità della scienza specializzata che si richiede a varie specie di tecnici. Poniamo, per esempio, che siate impegnato in un lavoro di ricerca scientifica nel campo della medicina. Il lavoro è difficile ed è probabile che assorba interamente la vostra energia intellettuale. Non avete tempo di considerare gli effetti che le vostre scoperte o invenzioni possono avere fuori del campo della medicina. Voi riuscite (supponiamo), come è riuscita la medicina moderna, a diminuire enormemente la mortalità infantile, non solo in Europa e in America, ma anche in Asia e in Africa. Questo ha il risultato interamente involontario di rendere inadeguata la produzione dei generi alimentari e di abbassare il livello di vita nelle zone più popolose del mondo. Prendiamo un esempio ancora più spettacoloso, che è nella mente di tutti ai tempi d'oggi: studiate la composizione dell'atomo per un disinteressato desiderio di conoscenza, e incidentalmente date nelle mani di potenti lunatici i mezzi per distruggere il genere umano. In tali modi la ricerca della conoscenza può divenire dannosa se non sia accompagnata dalla saggezza; e la saggezza, nel senso di una visione comprensiva, non è necessariamente presente negli specialisti della ricerca scientifica. 

La sola comprensività non è, tuttavia, sufficiente per costituire la saggezza. Si deve avere anche una certa consapevolezza dei fini della vita umana. Questo può essere illustrato con lo studio della storia. Molti eminenti storici hanno fatto più male che bene perché hanno interpretato i fatti attraverso la lente deformante delle loro passioni personali. La filosofia della storia di Hegel non manca di comprensività, poiché comincia dai tempi più antichi e continua fino a un indefinito futuro. Ma la più importante lezione della storia che egli cercava di inculcare era che, dall'anno 400 di Cristo fino al suo tempo, la Germania era stata la nazione più importante e la vessillifera del progresso nel mondo. Forse si potrebbe estendere la comprensività che costituisce la saggezza fino a includervi non solo l'intelletto, ma anche i sentimenti. È tutt'altro che raro vedere uomini di grande cultura, ma di meschini sentimenti. Uomini simili mancano di ciò che io chiamo saggezza.

Non è soltanto nelle cose pubbliche, ma anche nelle private, che la saggezza è necessaria. È necessaria nella scienza dei fini da perseguire e nell'emancipazione dai pregiudizi personali. Anche un fine il cui perseguimento sarebbe nobile, se fosse raggiungibile, può venir perseguito con poca saggezza se è inerente a esso una impossibilità di attuazione. Nelle epoche passate, molti uomini hanno dedicato la vita alla ricerca della pietra filosofale e dell'elisir di lunga vita. Senza dubbio, se avessero potuto trovarli questo sarebbe stato un gran dono per l'umanità; di fatto, però, le loro vite furono sprecate. Per discendere a cose meno eroiche consideriamo il caso di due persone, il signor A e il signor B, che si odiano e a causa di questo odio reciproco si distruggono l'un l'altro. Supponiamo che voi andiate dal signor A e gli diciate: «Perché odiate il signor B? » Senza dubbio egli vi darà una lista schiacciante dei vizi del signor B, in parte vera e in parte falsa. Ora supponiamo che voi andiate dal signor B. Egli vi darà un elenco esattamente simile dei vizi del signor A, con un'eguale mescolanza di vero e di falso. Supponiamo che ora voi torniate dal signor A e gli diciate: «Vi farà meraviglia l'apprendere che il signor B dice di voi le stesse cose che voi dite di lui»; e che voi andiate dal signor B e gli facciate lo stesso discorso. Il primo effetto, senza dubbio, sarà di accrescere il loro odio reciproco poiché ciascuno sarà inorridito dall'ingiustizia dell'altro. Forse però, se sarete abbastanza paziente e abbastanza persuasivo, potrete riuscire a convincere ciascuno dei due che l'altro ha soltanto la misura normale della cattiveria umana, e che la loro inimicizia fa male a entrambi. Se riuscirete a far questo, avrete instillato in loro un qualche frammento di saggezza. 

Penso che l'essenza della saggezza sia l'emancipazione, per quanto possibile, dalla tirannia dell'adesso e del qui. Non possiamo liberarci dall'egoismo dei nostri sensi. La vista, l'udito e il tatto sono legati strettamente al nostro corpo e non possiamo renderli impersonali. In modo analogo, le nostre emozioni partono da noi stessi. Un bambino piccolo sente fame o disagio, e niente lo tocca tranne la sua condizione fisica. Gradualmente, con gli anni, il suo orizzonte si allarga e, a misura che i suoi pensieri e sentimenti divengono meno personali e meno preoccupanti dei suoi stati fisici, egli attinge un grado crescente di saggezza. Si capisce che è una questione di grado. Nessuno può guardare il mondo con un'imparzialità completa; e se qualcuno lo potesse, gli sarebbe assai difficile rimaner vivo. Ma è possibile avvicinarsi continuamente, per gradi, all'imparzialità, da un lato mediante la conoscenza di cose abbastanza remote nel tempo o nello spazio, e dall'altro lato attribuendo a simili cose, nei nostri sentimenti, il peso loro dovuto. È questo avvicinamento all'imparzialità che costituisce l'accrescimento della saggezza. 

La saggezza, intesa in tal senso, può essere insegnata? E, se lo può, l'insegnamento di essa non dovrebbe forse essere uno dei fini dell'educazione? Io risponderei affermativamente a tutt'e due queste domande. La domenica ci dicono che dobbiamo amare il nostro prossimo come noi stessi. Negli altri sei giorni della settimana, veniamo esortati a odiarlo. Potrete dire che questa è una sciocchezza, poiché non è il nostro prossimo, il nostro vicino, che veniamo esortati a odiare. Ma ricorderete che il precetto evangelico era esemplificato dicendo che il samaritano era il nostro vicino. Oggi giorno non abbiamo più nessuna inclinazione a odiare i samaritani, e quindi è facile che ci sfugga il senso della parabola. Per capirne il senso, dovrete sostituire comunista o anticomunista, secondo il caso, a samaritano. Si potrebbe obbiettare che è giusto odiare coloro che fanno del male. Io non lo penso. Se li odiate è anche troppo facile che diventiate voi stessi egualmente malefici; ed è molto improbabile che induciate loro ad abbandonare la mala condotta. L'odio del male è già di per sé una specie di asservimento al male. La via di uscita passa per la comprensione, non per l'odio. Io non sostengo qui la tesi della non-resistenza al male. Ma sostengo che la resistenza, perché possa impedire la diffusione del male, deve andare assieme al più alto grado di comprensione, e al minimo grado di forza compatibile con la sopravvivenza di quelle buone cose che desideriamo salvare. 

Si fa notare, comunemente, che un punto di vista del genere di quello che ho qui sostenuto è incompatibile con il vigore nell'azione. Non credo che la storia confermi tale opinione. La regina Elisabetta I in Inghilterra ed Enrico IV in Francia vissero in un mondo dove quasi tutti erano fanatici, dalla parte dei protestanti o da quella dei cattolici. Entrambi restarono immuni dagli errori del loro tempo ed entrambi, rimanendone immuni, furono benefici e certamente non inefficienti. Abraham Lincoln condusse una grande guerra senza mai partirsi da ciò ch'io ho chiamato saggezza. 

Ho detto che, in qualche misura, la saggezza può essere insegnata. Credo che questo insegnamento dovrebbe avere in sé un elemento intellettuale più largo di quello che è stato finora usuale in quella che viene considerata come istruzione morale. Credo che i disastrosi effetti dell'odio e della ristrettezza mentale su quegli stessi che provano tali sentimenti, possano essere fatti osservare incidentalmente nell'impartire la conoscenza. Non credo che conoscenza e morale debbano essere troppo separate. È vero che il genere di conoscenza specializzata che si richiede per i vari tipi della tecnica ha ben poco a vedere con la saggezza. Ma, nel processo educativo, la tecnica dovrebbe essere completata con osservazioni più vaste, intese a metterla al posto debito nel quadro delle attività umane. Anche i migliori tecnici dovrebbero essere al tempo stesso buoni cittadini; e quando dico «cittadini» voglio dire cittadini del mondo e non di questo o quel settore o nazione. A ogni accrescimento della conoscenza e della tecnica, la saggezza diviene più necessaria, poiché ognuno di questi accrescimenti aumenta la nostra capacità di attuare i nostri scopi, e perciò aumenta la nostra capacità di far del male, se i nostri scopi non sono saggi. Il mondo ha necessità della saggezza come mai prima d'ora; e se la conoscenza continua ad accrescersi, il mondo avrà in futuro una necessità della saggezza ancora più grande che non abbia ora.

3 commenti:

  1. AnonyMouse10/11/13, 01:29

    Devo ammettere che alcuni passaggi li ho mandati giu un po' a fatica, questo ovviamente a causa delle mie convinzioni personali. Il seguente passaggio invece, mi ha fatto riflettere: "Io non sostengo qui la tesi della non-resistenza al male. Ma sostengo che la resistenza, perché possa impedire la diffusione del male, deve andare assieme al più alto grado di comprensione, e al minimo grado di forza compatibile con la sopravvivenza di quelle buone cose che desideriamo salvare." - Sembra il linguaggio di un chirurgo, e se penso ai progressi fatti in Medicina assieme alle altre discipline scientifiche (penso, ad esempio all'integrazione Medicina-Fisica), non riesco a non dire che aveva molta ragione nel sostenere questa tesi. Grazie Pop per avercelo proposto.

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  2. Dopo aver letto questo Post sono incredibilmente subito riuscito a procurarmene una vecchia copia del periodo in ottime condizioni su un sito internet di libri a Ferrara.

    E' davvero splendido ed è incredibile come già dall'introduzione dello stesso Russel si percepisca come un aria quasi di romanzo d'avventure, tale il modo ironico, ad ampio respiro, sincero, affabile, diretto con cui scrive, racconta.

    Grazie per avermelo fatto trovare.

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  3. "Forse che Leonid era suo fratello? Nessun
    fratello: era uno sventurato come lui e come tutti, un
    trovatello raccattato per strada...Eppure il prurito
    persisteva: forse è proprio così, forse ognuno di noi è
    il Caino di qualche Abele, lo abbatte in mezzo al suo campo
    senza saperlo, per mezzo delle cose che gli fa, delle cose
    che gli dice, e delle cose che gli dovrebbe dire e non gli
    dice."
    A proposito di saggezza, la grande lezione morale di uno scienziato-reduce della follia nazista che ('resistente' per sua natura all'odio, ma neanche incline al facile perdono) ha passato il resto della sua vita di sopravvissuto a cercare di comprendere i suoi carnefici ed a trasmettere alle innumerevoli generazioni con cui è venuto in contatto il dovere di una conoscenza non disgiunta dalla responsabilità verso l'altro. Tenuto conto della sufficienza con cui è stato trattato da tanta parte della critica letteraria del tempo (non ostante i premi letterari e l'indiscusso successo di pubblico), mi pare doveroso ricordare l'esempio di un grande maestro di saggezza ed equilibrio come Primo Levi.

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