martedì 31 dicembre 2013

Due poesie matematiche con contrainte alfabetica


Geometria Analitica 

Assi Bramano Coordinate, 
Doverosamente Esprimenti 
Funzioni, Grafici: 
Hanno Innovato La Matematica, 
Nuovi Orizzonti 
Per Questo Raziocinante Sogno 
Tipicamente Umano, 
Veritiero Zodiaco. 

Elogio di Zermelo 

Zermelo Volle 
Una Teoria Solida 
(Russell Questionava) 
Per Ordinare 
Nuovamente Matematica, 
Logica, Insiemistica. 
Hilbert Gli Fornì Enigmi, 
Dubbi Cantor: 
Benedì Assiomi.

lunedì 30 dicembre 2013

Matematica del pianeta Terra: un piccolo esempio


Quando in una stazione sismologica si registra un terremoto, dal tracciato del sismogramma è possibile risalire alla distanza dell’epicentro, sulla base della differenza tra il tempo di arrivo delle onde P (primarie, o longitudinali, più veloci) e delle onde S (secondarie, o trasversali, più lente). Poiché si conoscono le velocità medie di propagazione delle onde P e S, il calcolo della distanza corrisponde alla risoluzione di una semplice equazione di primo grado. Facendo centro nel punto in cui è collocato il sismografo, si traccia così un cerchio che delimita la massima distanza del sisma. Incrociando i dati di almeno tre stazioni, centrate in A, B e C, è agevole localizzare l’area, o addirittura il punto (epicentro E), in cui è avvenuto il sisma (la zona più scura dello schema). Una volta questi calcoli si facevano a mano, adesso fanno tutto i computer, che sono capaci di risolvere in poche frazioni di secondo sistemi di equazioni nello spazio tridimensionale e individuare anche la profondità del sisma (l’ipocentro). Tutto ciò per dire, banalmente, che anche nel campo della sismologia e della geofisica, senza matematica non si farebbe nulla.

sabato 28 dicembre 2013

Alla ricerca della forma ideale

Grégoire Allaire, professeur à l’École polytechnique 
François Jouve, professeur à l’Université Paris Diderot 

Gli oggetti prodotti dalla fabbricazione industriale sono concepiti in modo da ottimizzare un certo numero di parametri, come il peso o la solidità. Per evitare di cercare alla cieca la miglior forma possibile, oggi si può contare su svariati metodi di ottimizzazione. 

Le nostre società moderne sono attratte dal design, questa parola inglese, senza equivalenti in italiano, che traduce la nostra volontà di unire il bello e l’utile. Il grande pubblico conosce bene i designer famosi e mediatici come Pininfarina o Starck, ma assai di meno gli scienziati, ingegneri o ricercatori, che si occupano di progettazione ottimale (in inglese optimal design): lontani da ogni preoccupazione estetica, essi migliorano le forme degli oggetti industriali (struttura meccanica, profilo aerodinamico, componenti elettronici, ecc.) al fine di aumentarne le prestazioni (solidità, efficacia) tenendo conto dei vincoli, talvolta contraddittori, come il loro peso o il loro costo. È evidente per esempio che la solidità di una struttura varia con l’inverso del suo peso (ciò che è pesante è più solido di ciò che è leggero). Così, l’ottimizzazione della robustezza di un aeroplano è limitata dal vincolo di un consumo minimo di carburante, che è legato direttamente al peso. Un problema classico in matematica consiste proprio di cercare la soluzione ottima a un problema di ottimizzazione di una funzione (chiamata funzione obiettivo) rispettando dei vincoli. 

Il metodo tradizionale di ottimizzazione procede per tentativi ed errori, seguendo il talento e l’intuizione dell’ingegnere: si sceglie una forma di cui si calcola la prestazione e poi, in funzione di quest’ultima, la si modifica per tentare di migliorarla, e si ricomincia fino a quando si ottiene una forma soddisfacente (senza che sia ottimale). Questo modo di procedere “manuale” è assai lento, costoso e poco preciso. Grazie allo straordinario sviluppo della potenza di calcolo dei computer, così come al progresso della matematica, tale metodo empirico è sempre più sostituito da software numerici che automatizzano il processo di ottimizzazione. 

Ottimizzare la geometria con il metodo di Hadamard

Ogni algoritmo d’ottimizzazione è iterativo: si costruisce una nuova forma a partire da una variazione della precedente. In seguito si calcola la prestazione di questa nuova forma, che si confronta con quella della prima. Infine, se la prestazione della struttura si rivela migliorata, si ricomincia a partire dalla nuova forma. 

Nel 1907, il matematico francese Jacques Hadamard ha proposto un metodo di variazione di forma che ora porta il suo nome e che, per quanto sia di origine teorica, si applica nella pratica per simulare certi problemi con il computer. Il metodo consiste, partendo da una forma iniziale, di spostare i bordi a poco a poco, senza crearne dei nuovi. Questo metodo modifica perciò la geometria della forma iniziale, ma ne conserva la topologia: infatti le forme ottenute successivamente conservano sempre lo stesso numero di buchi, come si può vedere dalle illustrazioni che rappresentano i risultati numerici del metodo di Hadamard. 

Figura 1. Inizializzazione (a sinistra), iterazione intermedia (al centro) e forma ottimale (a destra) di una mensola, ottenute con il metodo di Hadamard.
Il fatto che la topologia non cambi costituisce una limitazione molto fastidiosa. Infatti ciò significa che bisogna intuire la buona topologia da imporre alla nostra forma sin dall’inizio, perché non si potrà poi modificare per migliorare la prestazione. E ciò è impossibile nella maggior parte dei casi. Da ciò nasce la motivazione dei matematici di inventare altri metodi, capaci di ottimizzare allo stesso modo la topologia, cioè il numero dei buchi.

Inoltre, il metodo di Hadamard presenta anche lo svantaggio di essere molto costoso in termini di tempo di calcolo. 

L’importanza dei materiali compositi 

Negli anni ’90, i matematici hanno trovato un metodo di ottimizzazione topologica di forma, detto, metodo di omogeneizzazione, che è ormai largamente utilizzato dagli ingegneri in numerosi software industriali. L’idea di base è di trasformare un problema di ottimizzazione di forma in un problema di ottimizzazione di una densità di materia.

In ogni punto dello spazio, la densità di materia è un valore compreso tra 0 e 1. Il valore 0 corrisponde a un buco o al vuoto (assenza di materia), il valore 1 corrisponde a un materiale pieno, e i valori intermedi (per esempio il valore 0,5) corrispondono a un materiale composito poroso, come ad esempio una spugna. Più il valore è vicino allo 0, più la proporzione dei buchi nel materiale è pertanto importante. 

In questo caso si sostituisce il problema originale d’ottimizzazione discreta del tipo 0 o 1 (in ogni punto dello spazio o si ha del vuoto o della materia) con un nuovo problema d’ottimizzazione continua, dove la variabile da ottimizzare, la densità di materia, è compresa nell’intervallo completo [0,1]. Con questo nuovo approccio, non si è più prigionieri della parametrizzazione delle forme proposta da Hadamard: la topologia può così essere cambiata e possono comparire o scomparire dei buchi secondo le variazioni della densità. 
Figura 2. Esempio di materiale composito
Notiamo che la densità di materia non basta a caratterizzare completamente un materiale composito: per una data densità, conta anche la forma dei buchi per valutare le proprietà effettive del materiale. Per esempio, la rigidità equivalente di un materiale composito non sarà la stessa per una struttura laminata e per una struttura a nido d’ape. Il metodo di omogeneizzazione si prone perciò di ottimizzare non solo la densità di materia, ma anche la microstruttura (la forma dei buchi) del materiale composito. 

Un altro vantaggio del metodo di omogeneizzazione è che la risoluzione numerica è più rapida: richiede meno calcoli. Una delle ragioni di ciò risiede nel fatto che per cambiare la densità in un punto dato, l’algoritmo non utilizza che i valori di densità intorno a questo punto, e non i valori di punti più distanti, come avveniva con il metodo di Hadamard.

La mensola ottimale 

Ecco un problema classico di ottimizzazione di forma, quello della mensola ottimale. In questo caso, il bordo di sinistra della mensola è fissato al supporto, mentre una forza verticale è applicata in mezzo al bordo di destra.
Figura 3 : Disposizione della mensola
Disegniamo la densità di materia, rappresentata da una tonalità di grigio (il nero corrisponde al materiale pieno, il bianco al vuoto). La soluzione ottimale presenta delle larghe zone di grigio, che corrispondono a del materiale composito, che è difficile interpretare come una forma. Per ritrovare una forma «classica» vicina alla forma composita ottimale, una soluzione è quella di «penalizzare» i materiali compositi, ai fini dell’ottimizzazione numerica, che significa aggiungere dei vincoli nell’algoritmo affinché la soluzione ottimale sia composta di zone o piene o vuote piuttosto che di zone composite. 

Figura 4. Mensola ottimale composita (il tono di grigio indica la densità di materia).

Il risultato è impressionante: la zona composita si trasforma in un reticolato di barre che richiama numerose strutture del genio civile o della meccanica.

Figura 5. Mensola ottimale dopo la penalizzazione e senza compositi.
Questi metodi di ottimizzazione geometrica e topologica delle forme sono utilizzati quotidianamente nell’industria automobilistica o aeronautica, ad esempio quando si tratta di trovare la forma di una struttura che sia contemporaneamente rigida e leggera. Numerosi componenti meccanici (triangoli delle sospensioni, longheroni) nelle automobili o negli aerei sono così alleggeriti con l’ottimizzazione, con lo scopo di ridurre, alla fine, il consumo di carburante.

Per saperne di più

Sito web: http://www.cmap.polytechnique.fr/~optopo

Allaire G., (2007). Conception optimale de structures, Collection Mathématiques et Applications, vol. 58, Springer Verlag.

Henrot A., Pierre M., (2005). Variation et optimisation de formes, Collection Mathématiques et Applications, vol. 48, Springer Verlag.

Hildebrandt S., Tromba A., (1986). Mathématiques et formes optimales, Pour la Science, Belin, Paris

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Questo articolo è una traduzione più o meno fedele, dell’originale francese A la recherche de la forme idéale comparso alle pp. 65-69 della brochure Mathématiques - L’explosion continue, ideata da Fondation Sciences Mathematiques de Paris (FSMP), Societe Francaise de Statistiques (SFDS), Societe de Mathematiques Appliquees et Industrielles (SMAI) e Societe Mathematique de France (SMF), pubblicata nello scorso settembre. Si tratta di un aggiornamento di un’analoga pubblicazione del 2002, concepita per divulgare i progressi della matematica e la sua importanza in quasi ogni campo della nostra vita quotidiana.

Come scrivono Maria J. Esteban, Bernard Helffer e Jean-Michel Poggi nella prefazione, “La matematica è uno strumento insostituibile di formazione al rigore e al ragionamento; essa sviluppa l’intuizione, l’immaginazione, lo spirito critico; essa costituisce inoltre un linguaggio universale e un elemento fondamentale della cultura. Essa gioca inoltre, per le sue interazioni con le altre scienze e la sua capacità di descrivere e spiegare fenomeni complessi messi in evidenza nella natura e nel mondo tecnologico, un ruolo crescente nella nostra vita quotidiana. [Eppure] questo stato delle cose è assai spesso ignorato o per lo meno sottostimato dalla maggioranza dei nostri concittadini, per i quali la matematica è una disciplina astratta, che non si sviluppa più, fissata in una prospettiva di formazione che ha poco a vedere con il mondo reale”

Pubblicazioni come questa servono per ovviare a questo paradosso, e andrebbero diffuse a tutti i livelli, soprattutto nelle scuole. Nel nostro paese la percezione di questa disciplina da parte dell’uomo della strada è, se vogliamo, ancora peggiore e la stranezza è ancora più evidente, tenuto conto che, con risorse assai inferiori a quelle dei nostri cugini transalpini, la matematica italiana, pura e applicata, possiede un buon livello qualitativo con punte di assoluta eccellenza. 

Facendo mio l’auspicio dell’amico Maurizio Codogno, auguro che una pubblicazione analoga venga redatta e pubblicata in Italia, e che lo sforzo (e il piacere) della traduzione spetti una volta tanto a qualche divulgatore francese.

domenica 15 dicembre 2013

Il testo descrittivo, anche se


Oggi ho finalmente trovato su un libro di scuola le dritte giuste per scrivere un testo descrittivo, perché la mia ambizione è di dedicarmi al mestiere di scrittore famoso. Sono istruzioni che variano a seconda dell’oggetto della descrizione, che non deve essere per forza un oggetto, ma è sempre oggetto anche se è una persona, un animale, o luogo, è una cosa della grammatica. Meglio però che mi limiti a un oggetto, tanto per cominciare, anche se uno può cominciare descrivendo una persona, un animale, un luogo all’aperto o uno al coperto, anche se forse è più difficile. Ne approfitto subito per raccontarvi delle crocchette per il mio gatto Moretto e lo farò seguendo alla lettera le indicazioni del libro, anche se non è una lettera, ma un testo descrittivo, appunto. 

Dunque, ho comprato le crocchette per Moretto e la prima cosa che devo fare è fornire una descrizione dettagliata dell’oggetto, specificando tante cose, anche se è solo una voce, ma sono tante cose. Le crocchette sono fatte di una scatola di cartone leggero, a forma di parallelepipedo, di colore giallo come sfondo, anche se c’è sopra la foto di un gatto che si sbarlecca i baffi con la lingua e c’è scritto il nome della marca, anche se non posso dirla per non fare pubblicità. In realtà le crocchette sono dentro la scatola, e mi sono confuso un po’, anche se quando dico prendo le crocchette, io prendo la scatola, perché altrimenti si sparpagliano da tutte le parti. 

Le crocchette sono appunto fatte di tante parti, ciascuna delle quali si chiama crocchetta, che è un nome singolare, mentre crocchette è plurale. Adesso devo dire la forma e il colore, anche se il colore varia proprio a seconda della forma, oppure è la forma che cambia con il colore. Ci sono le crocchette rotonde che sono verdi perché sono alle verdure, anche se sono quelle che piacciono di meno a Moretto, che le lascia nella ciotola quasi tutte. Poi, anche se non posso dire poi perché non vengono dopo, ma sono mescolate, ci sono le crocchette quadrate, che sono colorate di marrone e sono alla selvaggina, anche se non ho mai capito che animale è la selvaggina. La selvaggina può essere una lepre, un fagiano, se sei un leone può essere una gazzella, ma qui non è specificato, anche se non credo che importino le gazzelle dall’Africa per fare le crocchette dei gatti. L’ultimo tipo sono le crocchette rosse, che hanno una forma difficile da descrivere, perché sono come tre quadrati messi in circolo, come una croce ma senza un braccio, anche se non voglio dire con questo che Gesù era mutilato, solo che la forma è così. Queste crocchette sono al manzo, che è un tipo di mucca giovane che può essere maschio o femmina, anche se lo chiamano pure bovino. 

Adesso tocca alle dimensioni, che sono piccole, perché la bocca dei gatti non è grande come quella dei cani, anche se tutti questi animali hanno i canini, che sono denti e non cani piccoli. L’utilizzo è quello che le crocchette servono ai gatti per mangiare, che quando le mangiano fanno croc croc e da qui deriva il nome, anche se i gatti mangiano tante altre cose, come il paté, la muss, i bocconcini, che sono detti cibi umidi, e poi anche i pesci, che chissà perché non sono detti umidi anche se sono pesci e vivono nell’acqua. E poi se gli va mangiano anche il prosciutto, i topi, le mosche e le lucertole. Adesso devo dire le modalità di funzionamento ed è la parte più difficile, perché è tutto un tirare su di colpo, sgranocchiare e poi buttar giù, anche se i gatti non masticano come noi e allora ogni tanto vomitano e si vede che hanno mandato giù anche delle crocchette intere. Se non vomitano, le crocchette seguono il loro percorso più naturale ed escono a fine gatto sotto forma di cacca, anche se non è igienico e allora ci vuole sempre una lettiera con la sabbiolina pulita, meglio se fa la palla. 


Segue che devo dire la provenienza delle crocchette e raccontare il modo in cui ne sono venuto in possesso. Sulla scatola c’è scritto MADE IN ITALY, per cui sono state fatte qui in Italia, anche se non capisco perché se sono fatte in Italia lo devono scrivere in inglese, come se io andassi a bere una birra a Monaco (quella di Baviera, che è in Germania) e sui boccali tedeschi ci trovo scritto FATTA IN GERMANIA in italiano. Sul come ne sono venuto in possesso ho già detto che le ho comprate, mica le ho rubate, non è che per scrivere un testo descrittivo di un oggetto devo conservare lo scontrino, sempre che il commerciante lo faccia, anche se magari non ci penso e lo butto via. E se l’oggetto me lo hanno regalato? Insomma, uno che legge deve avere un po’ di fiducia, che non è il mod. UNICO, anche se io consegno solo il CUD perché casa mia non è mia, anche se ci vivo in affitto da quando c’erano ancora i miei, che sono morti, anche se li ricordo sempre con affetto e sarebbero contenti se diventassi uno scrittore famoso. 

Il valore dell’oggetto in sé, sia materiale che affettivo, non è mica tanto facile da descrivere. So che ho pagato quasi 2 euro per una scatola (mica vuota, con dentro le crocchette) e questo è il valore di mercato, anche se non le ho prese al mercato, ma nel negozio sotto casa, anche se sotto casa è un altro modo di dire perché non è che il negozio si trova sotto la casa, in cantina, ma vicino a dove sto. Mi preoccupa invece parlare del valore in sé. In fondo sono crocchette, e in sé non hanno altro che gli ingredienti, le verdure, la selvaggina, il manzo, o bovino. Che valori possono avere delle crocchette per gatti oltre a questo, anche se a me non vengono in mente e magari ci sono? Solo che non riesco a pensare a delle crocchette patriottiche, eroiche, religiose, oneste, e chi più ne ha più ne metta, anche se pure questo è un modo di dire, perché più di tot nella scatola non ce ne stanno. E il valore affettivo delle crocchette, per me che sono un uomo e non un gatto, non è granché, anche se magari uno è affezionato a una determinata marca o a un certo tipo di gusto, perché sa che piacciono al gatto mentre altri no. Io posso assicurare che le crocchette che sto descrivendo, delle quali non posso dire la marca perché è pubblicità, piacciono a Moretto, e quando ho provato a cambiare ha storto il naso, anche se non è vero che ha storto il naso, perché i gatti ce l’hanno così attaccato che è difficile vedere se lo stortano, è un modo di dire. 

Le opinioni che gli altri (amici, familiari) hanno delle crocchette di Moretto proprio non le conosco. Non è che la sera uno va al bar, trova gli amici e si mette a parlare delle crocchette del gatto, anche se non si può mai dire e magari succede, anche se penso che è più una cosa da femmine. Famigliari non ne ho: i miei genitori sono morti e mia sorella è sposata da sei anni ed è andata a vivere lontano, anche se qualche volta prendo il tram e la vado a trovare, o viene lei con mio cognato, che è uno che fa il professore di italiano ed è lui che mi ha prestato il libro di scuola. 

Alla fine devo dire le riflessioni personali su ricordi, sentimenti, desideri e problemi, anche se per delle crocchette non è tanto semplice. Ricordo che la prima volta le crocchette le ho comprate appena è arrivato Moretto, che lo hanno portato delle volontarie di Mondo Gatto, anche se io sarei andato a prendere il gatto anche se non me lo portavano. Ricordo anche che tre anni fa costavano di meno, ma forse perché la prima volta le ho prese al Super, e nella grande distribuzione ci sono le economie di scala, anche se non è detto che ci siano le scale, è un modo di dire, che quando uno è grosso spende di meno, ma qui non voglio inoltrarmi in altre spiegazioni. Il mio più grande desiderio è che le crocchette costino di meno, perché adesso Moretto è cresciuto e mangia tanto e io mica posso lavorare per lui, anche se gli voglio tanto bene. Il problema è proprio questo, anche se, a pensarci bene c’è anche quello che se sbagli a versarle nella ciotola vanno dappertutto, anche se sotto ci metto il giornale, ma è sempre una fatica raccogliere le crocchette di Moretto.


E’ uscito il nuovo numero di Tèchne, la “rivista di bizzarrie letterarie e non” diretta da Paolo Albani, giunta all'anno XXVII e al n.22. Il tema di questo numero, I consigli inutili, è stato declinato da P. Albani, L. Malerba, J. Swift, E. Satie, J. Cortázar, C. Peri Rossi, D. Charms, R. Bolaño, G. Manganelli, E. Flaiano, U. Eco, E. Cavazzoni, P. Morelli, A. Somenzari, G. Mammi, E. Mazzardi, S. Salomoni, E. Grimalda, A. Breton e P. Éluard, E. Ionesco, A. Campanile, A. Merce, R. Butazzi, A. Bove, J. Kolář, D. Baldi, B. Munari, M. F. Barozzi, W. Szymborska, J. R. Wilcock, P. Pergola, G. Zauli, S. Tonietto, L. Di Lallo, P. Barchi, L. Pignotti, R. Aragona, A. Debenedetti, P. Grassini, A. Castronuovo, F. Gabici, A. De Pirro, R. de Rosa e da un paio di grandi anonimi. 

L’intero numero è scaricabile gratuitamente in formato pdf dal sito della rivista. Qui sopra il lettore paziente ha trovato il mio contributo, ma sicuramente la bella, intelligente e prestigiosa rivista contiene di meglio.

venerdì 13 dicembre 2013

La freccia del tempo


Otto anni prima della morte di Newton, un altro Isaac, un protestante dissidente di nome Isaac Watts, pubblicò un libro di salmi, parafrasi e inni intitolato The Psalms of David: Imitated in the Language of the New Testament and Applied to the Christian State and Worship (1719). L’inno 58 così recita: 

Time, what an empty vapor 'tis; 
and days how swift they are. 
Swift as an Indian arrow flies; 
or like a shooting star. 

[Il tempo, che vuoto vapore che è / e i giorni quanto sono veloci / Veloci come vola una freccia indiana / o come una stella cadente] 

In tutta la sua stringente semplicità, questa idea del tempo è banale. Watts, come Newton, vede il tempo muoversi inesorabilmente, linearmente, in avanti, come una freccia. Per lo scienziato, “Il tempo assoluto, vero, matematico, in sé e per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, scorre uniformemente, e con altro nome è chiamato durata; quello relativo, apparente e volgare, è una misura (accurata oppure approssimativa) sensibile ed esterna della durata per mezzo del moto, che comunemente viene impiegata al posto del vero tempo: tali sono l’ora, il giorno, il mese, l’anno”. Questa definizione si trova in una nota ai Principia Mathematica, in cui tempo, spazio e moto assoluti sono considerati assiomi empiricamente indefinibili. Newton sostiene il carattere assoluto di spazio e tempo, come due dimensioni che esisterebbero anche se non esistessero i corpi. Con ciò egli va oltre Aristotele, che vedeva nello spazio e nel tempo due accidenti della sostanza corporea, impensabili perciò senza questa, e propone una visione dell'universo che al suo grande contemporaneo e rivale Gottfried Leibnitz appare incline al materialismo in modo inaccettabile (Berkeley invece accuserà Newton di aver reintrodotto la metafisica proprio a causa di questi assiomi assoluti). 

Leibnitz sostiene non solo la relatività di spazio e tempo rispetto alla sostanza materiale, ma, addirittura, la loro relatività alla prospettiva dell'uomo come soggetto. Per il filosofo tedesco, il tempo non ha una realtà oggettiva indipendente dal soggetto, ma è un nostro modo di vedere "l'ordine dei successivi". Come dirà J. L. Borges (Nuova confutazione del tempo, in Altre inquisizioni): 

“Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco”. 

Durante uno scambio di lettere dei primi mesi del 1716 tra Leibnitz e lo scienziato e filosofo newtoniano Samuel Clarke, il tedesco sostiene “ho osservato più di una volta che considero lo spazio come qualcosa di puramente relativo, così come il tempo: è un ordine delle coesistenze, al pari del tempo, che è un ordine delle successioni”. Detto altrimenti, il tempo non ha una sua realtà assoluta al di fuori dei corpi, poiché così non vi sarebbe stata alcuna ragione sufficiente della creazione del mondo da parte di Dio in un preciso momento piuttosto che in un altro: “gli istanti, fuori delle cose, non sono nulla e non consistono se non nel loro ordine successivo”. Clarke obietta che lo spazio-tempo ha una sua realtà e una sua quantità: se esso fosse solo ordine di successione e pura relazione non avrebbero senso i termini prima e dopo, poiché due successioni uguali non sarebbero distinguibili: “se poi il tempo non fosse che l’ordine di successione delle cose create, ne seguirebbe che, se Dio avesse creato il mondo milioni di anni prima, Egli non l’avrebbe tuttavia creato prima”. Ma per Leibniz non si possono dare, se non nella finzione impossibile, due cose o eventi indiscernibili così come non si trovano due foglie identiche "in tutto il giardino di Herrenbausen". Il tempo è l’ordine delle possibilità del mondo e non può essere trattato come una sostanza cristallina: la lungimiranza delle posizioni di Leibniz sarebbe stata colta molto tempo dopo. 

Assoluto o relativo, la visione del tempo subisce uno scossone nel XIX secolo, con la nuova scienza della termodinamica. Essa si basa su due leggi: la prima riguarda la conservazione dell’energia e afferma che l'energia di un sistema termodinamico non si crea e non si distrugge, ma si trasforma, passando da una forma a un'altra. La seconda legge ha implicazioni più profonde. Essa afferma che l’energia si degrada, il che comporta che il sole alla fine si spegnerà e che il destino di tutti gli esseri viventi è la morte. Shakespeare ne era consapevole, quando nel quarto atto, seconda scena, del Cimbelino, fece dire a Guiderio: 

Golden lads and girls all must, 
As chimney-sweepers, come to dust. 

[Goffredo Raponi ha così tradotto liberamente: “Equo destino egual riserva sorte / a giovinetti e fanciulle di corte / e allo spazzacamino. / Volgerà in polvere ciascun la morte”.]

Esistono molte formulazioni equivalenti di questo principio, ma la più utilizzata è quella che si basa sulla funzione entropia, che viene interpretata come una misura del disordine presente in un sistema fisico qualsiasi, incluso l'universo: 

In un sistema isolato l'entropia è una funzione non decrescente nel tempo 

Siamo per la prima volta di fronte a un processo fisico che può, in qualche misura, dare l’idea dello scorrere del tempo in una sola direzione, dall'ordine al disordine. Ricompare così la freccia del tempo di Watts, almeno a livello macroscopico. Il concetto fu espresso magnificamente da Mamma Oca nelle Nursery Rhymes: è più facile rompere un uovo che riaggiustarlo. 

Humpty Dumpty sat on a wall. 
Humpty Dumpty had a great fall. 
All the King's horses and all the King's men, 
Couldn't put Humpty together again. 

[Humpty Dumpty sul muro sedeva, 
Humpty Dumpty dal muro cadeva. 
Tutti i cavalli e i soldati del re 
non riuscirono a rimetterlo in piè]. 


Per la seconda legge della termodinamica, il tempo è legato al comportamento dell’insieme delle molecole di un sistema, non a quello di una singola molecola. Ciò avviene perché grandi quantità di molecole tendono spontaneamente ad assumere la disposizione più probabile, che è quella in cui il loro movimento collettivo è più disordinato e l’entropia aumenta. La nostra conoscenza della realtà che ci circonda non arriva alla scala delle molecole. Siamo consapevoli solo del comportamento di grandi insiemi di molecole, allora la freccia del tempo riflette la coscienza umana, perché sperimentiamo solamente eventi che vanno in una direzione e non nell'altra. 

Un paio di cose vanno tuttavia evidenziate. La prima è il fatto che il comportamento delle singole molecole non possiede questa direzionalità temporale. L'altra è che le cose non sembrano procedere esattamente come suggerito dalla cosiddetta degradazione dell’energia. L’assai meno conosciuto principio di Le Chatelier pone dei limiti alla Seconda Legge. Esso afferma che ogni sistema tende a reagire ad una modifica impostagli dall'esterno minimizzandone gli effetti. L’esempio più noto è dato dalle reazioni chimiche: quanto più calda diviene una fiamma, tanto meno completa sarà la combustione. Invece di correre verso il completamento, la combustione si oppone alla sua stessa azione. Allo stesso modo la ruggine tende a coprire i metalli con patine protettive che rallentano il processo di arrugginimento. I processi spontanei degradano le cose, ma la natura attiva sempre processi che ritardano il degrado, rallentando l’inevitabile. Essa ci concede tempo, lasciandoci la possibilità di vivere e invecchiare ed, eventualmente, di diventare Newton o Shakespeare. 

Abbiamo visto che l’aumento del disordine, lo scorrere irreversibile del tempo, riguarda insiemi di molecole, non una molecola presa singolarmente. Ciò significa forse che a livello microscopico il tempo sia reversibile? Questa domanda assillò Ludwig Boltzmann, uno dei più grandi fisici dell’Ottocento, al punto da condurlo al suicidio nel 1906, a sessantacinque anni d’età, forse perché non si sentiva compreso dai colleghi riguardo alle sue idee sull'irreversibilità. 

Il concetto di irreversibilità richiede qualche chiarimento. Quando le molecole collidono tra loro, esse rimbalzano l’una sull’altra senza attrito e senza perdita d’energia: si tratta di urti perfettamente elastici. Se il tempo scorresse all’indietro, la collisione si invertirebbe perfettamente. Ciò però darebbe luogo a un assurdo: supponiamo di aprire un contenitore pieno d’aria e che le sue molecole incomincino a uscir fuori. Supponiamo poi che il moto di ciascuna molecola possa in qualche modo essere magicamente invertito. Le molecole d’aria allora ritornerebbero nel contenitore? 

Sembra tanto insulso quanto logico. Il tempo sembra non avere direzioni preferenziali a livello molecolare, dove sembra perfettamente reversibile. Ma, qui, nel mondo macroscopico che sperimentiamo con i sensi, niente è così perfetto. Nel mondo visibile non si può rovesciare il passato. La freccia del tempo viaggia dal passato al futuro e l’aria non ritorna mai nel contenitore. 

Boltzmann trattò questa apparente contraddizione con della matematica ancor oggi ammirevole, mostrando come le leggi della statistica impediscano che avvenga questa inversione. Anche se singole molecole possono tornare indietro, in ogni loro grande insieme il disordine continua a crescere dopo che si è invertito il moto. Quasi immediatamente il gas incomincia di nuovo a uscire dal contenitore. Purtroppo i suoi calcoli non dicono perché i moti molecolari inversi non invertono la storia. I fisici classici, che non avevano accettato i suoi meccanismi molecolari, lo attaccarono violentemente su questo punto ed egli ne morì. La storia, il tempo, gli avrebbero dato ragione.

domenica 8 dicembre 2013

Thomas Hariot e il circolo degli atomisti inglesi


Nel corso del Seicento l’atomismo tornò all'attenzione dei filosofi della natura e sostituì la moribonda visione aristotelica del mondo. Per la sua definitiva affermazione dopo secoli di oblio si citano spesso le figure di Galileo in Italia (dimenticando Giordano Bruno), Pierre Gassendi in Francia e, soprattutto Robert Boyle in Inghilterra, ma in quest’ultimo paese l’atomismo ebbe un certo numero di precursori, come coloro che si riunivano nel circolo attorno a Lord Henry Percy (1564-1632), nono conte di Northumberland e al matematico e poliedrico scienziato Thomas Hariot (1560-1621). 

Henry Percy, unico protestante in un’antica famiglia di tradizioni cattoliche, uno dei Grandi del regno e dei nobili più ricchi della corte di Elisabetta I, era soprannominato “il Conte Stregone” a causa dei suoi interessi scientifici e alchemici, la sua passione per la cartografia e la grande biblioteca nella sua residenza di Sion. Nel 1593 era stato insignito da Elisabetta I dell’Ordine della Giarrettiera, la più alta onorificenza del regno. Nonostante fosse sordo da un orecchio e si esprimesse con difficoltà, divenne una delle figure intellettuali e culturali più importanti della sua generazione. Oltre ad Hariot, attorno al suo circolo gravitarono alcuni degli intellettuali più in vista del tempo, come il matematico Nicholas Hill, seguace di Giordano Bruno, il matematico e geografo Robert Hues, autore di De globorum usu, il matematico e medico Walter Warner, e il traduttore di Stevino, Robert Norton. Tutti erano copernicani e, tranne forse Hues, atomisti. Anche il mago rinascimentale John Dee, che abitava poco distante da Sion dopo essere tornato dalla sua lunga missione europea, era un amico del conte. Dalle idee di questo circolo furono influenzati uomini di lettere come George Peele, John Donne e, probabilmente, anche George Chapman. 

Thomas Hariot, oxoniense di nascita e formazione, aveva già da giovane messo in luce le sue grandi doti intellettuali, al punto che Sir Walter Raleigh lo aveva assunto come matematico e lo aveva portato come naturalista, astronomo e interprete nella spedizione sull’isola Roanoke, lungo le coste della Virginia, tra il 1585 e il 1586 (di cui Hariot scrisse una famosa relazione due anni dopo). Raleigh, amico e compagno di carte del conte di Northumberland, gli fece conoscere Hariot nel 1588. Percy lo volle subito presso di sé come tutore e “scienziato residente” presso la sua residenza di Sion, presso Londra, che divenne il laboratorio dello scienziato. 

Hariot era il tipico intellettuale polivalente dell’epoca: matematico, fisico, astronomo, etnografo, fu in corrispondenza con molti colleghi europei, tra i quali Keplero. La relazione del viaggio in Virginia, in cui forniva anche gli elementi fondamentali della lingua dei nativi algonchini, resta l’unico testo pubblicato mentre egli era in vita. Gli appunti astronomici di Hariot offrono la testimonianza delle sue precoci osservazioni telescopiche: essi contengono una mappa della Luna disegnata intorno al 1611, osservazioni dei satelliti di Giove fatte nello stesso periodo di quelle che Galileo pubblicò nel Sidereus Nuncius del marzo 1610, e appunti sulle osservazioni delle macchie solari che egli fece con il telescopio il 18 dicembre 1610, cioè qualche mese prima di Galileo. Importante fu anche la sua opera come fisico, perché scoprì la legge della rifrazione due decenni prima di Snell. 


Le ricerche di Hariot in matematica e fisica riflettevano i suoi interessi filosofici. Egli era, infatti, un convinto atomista. In una lettera a Keplero, rivendicò l’utilità della teoria atomica per spiegare molti fenomeni naturali:

«Vi ho portato alle porte della casa della natura, dove giacciono i suoi misteri. Se non riuscite a entrare perché [le porte] sono troppo strette, allora contraetevi in un atomo, e vi entrerete facilmente. E quando poi uscirete di nuovo, ditemi le meraviglie che avrete visto». 

Coerente con le proprie idee, Hariot adottò la filosofia atomica per penetrare i segreti della natura, sulle orme di Erone di Alessandria e Lucrezio e, attraverso Diogene Laerzio, di Democrito ed Epicuro. Nella biblioteca del conte di Northumberland, una delle più grandi raccolte private d’Inghilterra, erano disponibili infatti centinaia di libri, tra i quali sicuramente le opere di Erone e Giordano Bruno, oltre a quelle di Glibert, Nepero, Keplero, Tycho Brahe, Paracelso, Della Porta. Anche il suo interesse per l’impacchettamento delle sfere (il “problema delle palle di cannone” di cui ho riferito in un precedente articolo) rifletteva il suo sforzo di capire come sono disposti i costituenti fondamentali della natura.

Secondo Hariot, tutto ciò che esiste in natura doveva essere composto dagli “indivisibili”. Restavano tuttavia diverse questioni aperte: come possono le cose infinite essere composte di parti finite? Esiste una transizione dal finito all’infinito attraverso un massimo finito? Nel manoscritto intitolato De infinitis, egli tentò di risolvere questi problemi adottando il concetto di indivisibile matematico: l’infinito è generato dal finito, l’infinito è composto dal finito, il finito è risolvibile negli indivisibili, il finito è composto di indivisibili. 

Il ragionamento di Hariot è piuttosto oscuro, in quanto il manoscritto è frammentario e incompleto. A quanto pare, egli affrontò il problema attraverso un’analisi di ciò che oggi chiamiamo serie infinite. Scriveva infatti: 

“Eppure come ultimo termine nelle progressioni decrescenti, dobbiamo concepire una quantità assolutamente indivisibile; ma moltiplicabile infinitamente fino a quando si produce una quantità assolutamente non moltiplicabile che potrei chiamare universalmente infinita (...) E nelle progressioni crescenti dobbiamo concepire una quantità assolutamente non moltiplicabile, ma divisibile infinitamente fino a quando si ottenga una quantità che sia assolutamente indivisibile”

Così, concludeva, gli infiniti sono generati dagli indivisibili finiti, o atomi matematici. In particolare, Hariot esaminò il problema della costruzione di un cerchio a partire dagli indivisibili matematici. La periferia di un cerchio deve essere composta, scriveva, da un infinito numero di atomi, altrimenti non sarebbe possibile disegnare un numero infinito di linee a partire dal centro della circonferenza. Anche il numero di atomi nell'area del cerchio deve essere infinito. 

L’atomismo matematico di Hariot rifletteva la sua teoria della materia. Come Democrito ed Erone di Alessandria, egli era convinto che l’universo sia composto da atomi immersi nel vuoto. Gli atomi sono eterni, pieni, omogenei. Le qualità fisiche dei corpi sono il risultato della grandezza, forma, e movimento degli atomi costituenti o dei corpuscoli formati da essi. Nel sistema di Hariot il ruolo del movimento è fondamentale: “Nulla si fa senza il moto, e non c’è moto senza causa. Dal nulla non proviene nulla”

Hariot pensava che i corpi omogenei possiedano atomi della stessa forma con densità uniforme. I corpi più densi consistono di atomi che si toccano da tutti i lati, mentre quelli più leggeri hanno dello spazio vuoto tra di loro. Le alterazioni chimiche che danno luogo a cambiamenti di peso sono causate dall’interposizione di atomi più piccoli nei vuoti tra quelli più grandi. I corpi duri e quelli morbidi variano soprattutto per la grandezza e forma delle particelle che li compongono. 

L’applicazione probabilmente più interessante dell’atomismo di Hariot fu nel campo dell’ottica. In una lettera a Keplero del 2 dicembre 1606, egli espose le sue idee. Perché, chiedeva, quando un raggio di luce cade sulla superficie di un mezzo trasparente, esso è in parte riflesso e in parte rifratto? Poiché, in base al principio di uniformità, un singolo punto non può sia riflettere sia trasmettere luce, la risposta deve risiedere nell'ipotesi che il raggio trova resistenza in alcuni punti e non in altri. 

Un corpo denso diafano, pertanto, che appare ai sensi continuo in tutte le sue parti, non è in realtà continuo, ma possiede parti corporee che resistono ai raggi, e parti incorporee (vacua) che sono penetrate dai raggi. Così la rifrazione non è altro che una riflessione interna, e la parte dei raggi che raggiunge l’interno, sebbene appaia diritta, è invece composta di tanti segmenti rettilinei. 

Nella sua risposta del 2 agosto 1607, Keplero rifiutò di seguire Hariot “ad atomos et vacua”. Keplero preferiva pensare al problema della riflessione-rifrazione secondo il linguaggio aristotelico, cioè in termini di unione delle opposte qualità di trasparenza e opacità. Hariot fu sorpreso dallo scolasticismo del suo collega: “Se quelle assunzioni e ragioni ti soddisfano, sono allibito”. Inoltre, proseguiva l’inglese, “Ti confesso che la mia opinione si basa sulla dottrina del vuoto… ma le cose sono tali che non posso per ora filosofare liberamente”. Hariot era preoccupato dell’eterodossia delle sue idee. L’atomismo dei grandi atei, Lucrezio e Epicuro, era ancora assai sospetto e pericoloso, anche se la spiegazione che offriva affascinava sempre più persone. 


Non è pertanto strano il fatto di trovare l’atomismo nell'opera di John Donne (1572-1631), poeta e prelato anglicano, autore di sermoni e poemi a carattere religioso, che visse la contraddizione tra la sua educazione scolastica di stampo medievale e il fascino che le scoperte della nuova scienza esercitavano sulle menti più illuminate. Nel 1611 scrisse First Anniversarie. An Anatomy of the World, in cui il suo tema poetico preferito della dissoluzione del mondo materiale in contrapposizione con la permanenza di quello spirituale viene declinato ai vv. 205-213 giocando con le parole anatomy e atomies: la materia sul tavolo anatomico viene sezionata fino a giungere agli atomi, cioè ai suoi costituenti più piccoli e immortali: 

new Philosophy cals all in doubt, 
The Element of fire is quite put out, 

And freely men confesse, that this world's spent, 
When in the Planets, and the Firmament 
They seeke so many new; they see that this 
Is crumbled out againe to'his Atomis. 
'Tis all in pieces, all cohaerence gone. 

[la nuova Filosofia mette tutto in dubbio / L’Elemento del Fuoco è proprio spento, / E liberamente gli uomini ammettono, che questo mondo è consumato / Quando nei pianeti, e nel Firmamento / essi cercano così tante novità; essi vedono che esso / è sbriciolato fino ai suoi Atomi. / È tutto a pezzi, tutta la coerenza è andata.]

Lo stesso tema si ritrova nella poesia d’amore The Exstasie, in cui, ai vv. 45-48, Donne mette in relazione la materialità degli atomi con lo stato immutevole dell’anima: 

Wee then, who are this new soule, know, 
Of what we are compos'd, and made, 
For, th'Atomies of which we grow, 
Are soules, whom no change can invade. 

[Allora noi, che siamo questa nuova anima, conosciamo / ciò di cui siamo composti e fatti, / Perché gli Atomi dai quali cresciamo / Sono anime, che nessun cambiamento può violare.] 


Nell'ultimo decennio del Cinquecento, Sir Walter Raleigh e i suoi amici, tra i quali uno dei più famosi era Hariot, furono sospettati di empietà dalle autorità. Si arrivò anche a una commissione d’inchiesta, senza però che fossero trovate prove. I sospettati furono scagionati, ma la fama di atei non li abbandonò. Questa cattiva reputazione portò il suo frutto avvelenato nel 1605. Nel novembre di quell’anno, un gruppo di cospiratori comandato da Guy Fawkes progettò di far esplodere il Parlamento in quella che venne chiamata Congiura delle Polveri. Il conte di Northumberland, cugino di Thomas Percy, uno dei capi cattolici del complotto, fu arrestato, accusato di tradimento e imprigionato. 

Anche Hariot temette di subire la stessa sorte: la sua reputazione di matematico e astronomo portava con sé quella di essere un mago. Re Giacomo I, che era succeduto a Elisabetta I nel 1601 sul trono inglese e in precedenza aveva redatto un trattato sulla stregoneria, era particolarmente preoccupato. Ordinò che Hariot fosse interrogato su un presunto “incantesimo sulla nascita del Re”. Un allievo di Hariot, Nathaniel Torporley (in seguito pastore anglicano e feroce avversario dell’atomismo), fu interrogato sulle attività astrologiche di Hariot riguardanti il sovrano e il Principe di Galles. Le stanze di Hariot a Sion furono scrupolosamente perquisite in cerca di prove della sua empietà e slealtà, senza che nulla fosse trovato. Ciò nonostante, fu arrestato. Il mese successivo inviò al Consiglio Privato del Re una lunga lettera per chiedere la propria liberazione, nella quale compare il primo riferimento a una sua malattia, assai penosa, che sarebbe stata incompatibile con la detenzione e lo avrebbe sicuramente portato alla morte. Hariot fu rilasciato per assoluta mancanza di prove, mentre Percy rimase nella Torre di Londra per diciassette anni. 

Non stupisce il fatto che, quando fu finalmente rilasciato, Hariot fosse piuttosto restio a esprimere le proprie convinzioni filosofiche, teologicamente e politicamente non ortodosse. Il suo atomismo, che derivava dalle idee degli antichi pagani materialisti, era all’epoca inaccettabile. Secondo il pettegolo cronista John Aubrey, la morte di Hariot nel 1621 in seguito a una lunga malattia (un tumore?) fu vista dai contemporanei come la ricompensa divina per il suo ateismo: 

“Non gli piaceva (o non gli sembrava degna di fiducia) la vecchia storia della creazione del mondo. Non poteva credere l’antica opinione: diceva che ex nihilo nihil fit. Ma un nihilum l’uccise infine: perché sulla punta del naso gli venne una macchiolina rossa (straordinariamente piccola) la quale crebbe e crebbe finché alla fine l’uccise. Suppongo che era ciò che i chirurgi chiamano un noli me tangere
Aveva inventato una teologia filosofica, per cui ripudiava il Vecchio Testamento, e quindi quello Nuovo (di conseguenza) non aveva più fondamento. Era un deista. Insegnò la sua dottrina a Sir Walter Raleigh, a Henry conte di Northumberland e ad alcuni altri. I teologi di quei tempi considerarono la maniera della sua morte come un giudizio divino, per avere rigettato le Scritture”. 

Come si è detto, Hariot non pubblicò più nulla dopo la relazione del viaggio in Virginia del 1588. Ciò nonostante, non fu un personaggio isolato: i suoi manoscritti circolavano ed ebbe alcuni discepoli. Alla sua morte nel 1621 lasciò agli esecutori testamentari (Walter Warner e Sir Thomas Aylesbury) il compito di pubblicare un suo manuale d’algebra, ma essi lo fecero rimaneggiandolo e togliendo le parti più innovative. Così l’Artis Analyticae Praxis, uscito postumo nel 1631, in parte debitore dell’opera del francese François Viète, fu privato di inedite intuizioni sulle radici dei numeri negativi e sui numeri complessi. Il resto della sua opera scientifica, più di 400 fogli vergati con minuscola grafia, non fu stampato, finché non fu riscoperto tra il XIX e il XX secolo. Solo allora Hariot ebbe il riconoscimento della sua statura di matematico e di scienziato, che i contemporanei, tranne una ristrettissima avanguardia, non avevano saputo apprezzare a causa delle sue idee o, piuttosto, delle loro.

mercoledì 4 dicembre 2013

En attendant


Il blog vive una piccola fase di stallo, per motivi di vita e lavoro, e non viene aggiornato con la solita frequenza. Comunque è meglio non dir nulla che dover scrivere compulsivamente basta che sia. In attesa di un articolo serissimo, che arriverà presto, un'incursione nel campo della vignetta.



mercoledì 27 novembre 2013

Attacco al cu-ore dello Stato


«Pronto? È il senatore Sandro Bondi?». 
«Chi parla?». 
«Il dottor Travaglini». 
«Chi Travaglini?». 
«È lei il senatore Sandro Bondi?». .
«Sì, sono io». 
 «Ecco, mi sembrava di riconoscere la voce... Senta, indipendentemente dal fatto che lei abbia il telefono sotto controllo, dovrebbe portare un’ultima ambasciata alla Pascale e a Dudù». 
«Sì, ma io voglio sapere chi parla». 
 «Toghe rosse. Ha capito?». 
 «Sì». 
 «Ecco, non posso stare molto al telefono. Quindi dovrebbe dire questa cosa alla famiglia, dovrebbe andare personalmente, anche se il telefono ce l’ha sotto controllo non fa niente, dovrebbe andare personalmente e dire questo: adempiamo alle ultime volontà del presidente comunicando alla famiglia dove potrà trovare il corpo del senatore Silvio Berlusconi. Mi sente?». 
«No; se può ripetere, per cortesia...». 
«No, non posso ripetere, guardi... Allora lei deve comunicare alla famiglia che troveranno il corpo del senatore Silvio Berlusconi nel garage di Palazzo Madama. Va bene?». 
 «Sì». 
«Lì c’è una Renault Megane rossa. I primi numeri di targa sono FI 2». 
(…) 
 «Può andare anche la Santanché, va benissimo, certamente: purché lo faccia con urgenza; perché le volontà, l’ultima volontà del senatore è questa: cioè di comunicare alla famiglia, perché la famiglia doveva riavere il suo corpo... Va bene? Arrivederci».

domenica 24 novembre 2013

Arriva Fallimenti ed è tutto un guardarsi dentro


Ho provato, ho fallito. Non discutere. Fallisci ancora. Fallisci meglio.
[Samuel Beckett, citato da Patrizia Barchi, o viceversa]

Questa bellissima immagine di copertina (di Luigi Filippelli) ricorda che è uscito presso MalEdizioni, officina editoriale per il perfezionamento dell'uomo, piccola (per ora) e coraggiosa editrice bresciana, l’antologia Fallimenti, che raccoglie le opere di tredici incauti scrittori che sono stati stipati in un razzo e lanciati alla conquista di uno spazio senza limiti: lo spazio della narrazione. La loro missione è raccontare storie in cui si mancano gli obiettivi: teorie che non hanno portato a niente, nobili decaduti o personaggi storici con idee senza né capo né coda. Racconti in caduta libera che usando l’ironia sdrammatizzano l’insuccesso e permettono di guardare il fallimento da un’altra prospettiva.

Tredici autori (il numero potrebbe non essere casuale) che rispondono ai nomi di Arthur Conan Doyle, Paolo Albani, Giovanni Agozzino, Mauro Bellicini, Patrizia Barchi, Nicola Fantoni, Massimiliano Maestrello, Enrico Mazzardi, Armando Azzini, Elena Sartori, Marco Fulvio Barozzi, Fabio Bonetti, Nicolò Porcelluzzi. Avete letto bene: ci sono anch’io, con la storia del tentativo di un papa e del suo architetto favorito di lanciare un missile particolare per forare la sfera delle stelle fisse e creare un nuovo astro, cattolicissimo.

Ecco l’incipit del mio Il missile del Papa:

"L’obelisco è ancora lì, nel bel mezzo di Piazza San Pietro, da quando fu issato nel 1586. Sì, quello portato a Roma per ordine di Caligola nel 37, l’unico rimasto in piedi da quei tempi, che si ergeva di fianco alla chiesa di Santa Maria della Febbre e fu portato dove adesso si trova per realizzare il folle progetto di Sisto V e del suo architetto di fiducia, Domenico Fontana. L’Obelisco Vaticano doveva infatti servire per ben altro che abbellire il centro della cristianità".


FALLIMENTI - cadute, collassi, colate a picco
edizione cartacea 
anno: 2013 
prezzo: 11,00 € 
pagine: 128 
formato: 12×16 cm 
ISBN: 978-88-97483-07-6

Per ordinare Fallimenti, qui trovate i link a Ibs o a Goodbook. Sempre allo stesso indirizzo trovate anche un elenco di librerie amiche da cui poterlo ordinare. Oppure potete scrivere direttamente a MalEdizioni e richiederne una copia (pagamento tramite paypal o bonifico e spese di spedizione gratuite).



venerdì 22 novembre 2013

I tre gentiluomini di Jometry-oh-Fine

Tre prodi gentiluomini di Jometry-oh-Fine 
salparono un giorno su una bottiglia di Klein, 
che cominciò ad affondare 
appena messa in mare, 
e più non si videro a Jometry-oh-Fine.


domenica 10 novembre 2013

Conoscenza e saggezza di Bertrand Russell

Ritratti a memoria è l’edizione italiana, pubblicata da Longanesi nel 1969 nella traduzione di Raffaella Pelizzi, della raccolta Portraits from Memory and Other Essays, che Bertrand Russell (1872-1970) curò nel 1956. Il libro raccoglie una serie di conferenze, loro estratti, e articoli che il filosofo, logico e matematico inglese, uno dei più grandi intellettuali del Novecento, aveva scritto perlopiù negli anni del secondo dopoguerra. Sono presenti ricordi di personaggi che Russell aveva conosciuto sin dai tempi dell’università, come Ludwig Wittgenstein, Joseph Conrad, Herbert George Wells, David Herbert Lawrence, George Bernard Shaw, accanto ad articoli che ripercorrono ricordi d’infanzia e di giovinezza (come la scelta pacifista durante il primo conflitto mondiale, che gli costò il carcere e la perdita degli incarichi accademici), e considerazioni sulla politica mondiale dei suoi tempi, dominata dalla guerra fredda e dal pericolo di un olocausto nucleare. 

Gli ultimi articoli illustrano le sue posizioni su temi generali quali moralità, problema ontologico, dimostrazioni scientifiche, futuro dell'umanità, arte della scrittura, ricerca della felicità, trattati con lucidità e chiarezza espositiva. Tra questi scritti mi ha particolarmente colpito Conoscenza e saggezza, (Knowledge and Wisdom), un articolo in cui Russell espone idee tuttora condivisibili riguardo alla necessità che la saggezza, difficile equilibrio di responsabilità, altruismo, rigore, senso del limite, imparzialità, si deve accompagnare al progresso della conoscenza. Chi fa ricerca deve sempre tener presente questo richiamo alla consustanzialità di scienza e coscienza personale, qualunque sia il proprio pensiero filosofico, politico o religioso, oggi più che mai, perché “A ogni accrescimento della conoscenza e della tecnica, la saggezza diviene più necessaria, poiché ognuno di questi accrescimenti aumenta la nostra capacità di attuare i nostri scopi, e perciò aumenta la nostra capacità di far del male, se i nostri scopi non sono saggi”. La saggezza si può anche insegnare, a patto che non si confonda il processo educativo con la mera trasmissione di saperi.


I più converranno che, sebbene la nostra epoca sorpassi di gran lunga tutte le precedenti nella conoscenza, non c'è stato un correlativo aumento della saggezza. Ma l'accordo cessa non appena si tenta di definire la «saggezza» e di proporre i modi di darle impulso. Voglio prima domandarmi che cosa è la saggezza, e poi ciò che si può fare per insegnarla. 

Credo che parecchi fattori contribuiscano alla saggezza. Di questi metterei in primo luogo il senso delle proporzioni: la capacità di tener conto di tutti i fattori importanti di un problema e di attribuire a ciascuno di essi il peso dovuto. Questo è divenuto più difficile di quanto non fosse prima, per la vastità e complessità della scienza specializzata che si richiede a varie specie di tecnici. Poniamo, per esempio, che siate impegnato in un lavoro di ricerca scientifica nel campo della medicina. Il lavoro è difficile ed è probabile che assorba interamente la vostra energia intellettuale. Non avete tempo di considerare gli effetti che le vostre scoperte o invenzioni possono avere fuori del campo della medicina. Voi riuscite (supponiamo), come è riuscita la medicina moderna, a diminuire enormemente la mortalità infantile, non solo in Europa e in America, ma anche in Asia e in Africa. Questo ha il risultato interamente involontario di rendere inadeguata la produzione dei generi alimentari e di abbassare il livello di vita nelle zone più popolose del mondo. Prendiamo un esempio ancora più spettacoloso, che è nella mente di tutti ai tempi d'oggi: studiate la composizione dell'atomo per un disinteressato desiderio di conoscenza, e incidentalmente date nelle mani di potenti lunatici i mezzi per distruggere il genere umano. In tali modi la ricerca della conoscenza può divenire dannosa se non sia accompagnata dalla saggezza; e la saggezza, nel senso di una visione comprensiva, non è necessariamente presente negli specialisti della ricerca scientifica. 

La sola comprensività non è, tuttavia, sufficiente per costituire la saggezza. Si deve avere anche una certa consapevolezza dei fini della vita umana. Questo può essere illustrato con lo studio della storia. Molti eminenti storici hanno fatto più male che bene perché hanno interpretato i fatti attraverso la lente deformante delle loro passioni personali. La filosofia della storia di Hegel non manca di comprensività, poiché comincia dai tempi più antichi e continua fino a un indefinito futuro. Ma la più importante lezione della storia che egli cercava di inculcare era che, dall'anno 400 di Cristo fino al suo tempo, la Germania era stata la nazione più importante e la vessillifera del progresso nel mondo. Forse si potrebbe estendere la comprensività che costituisce la saggezza fino a includervi non solo l'intelletto, ma anche i sentimenti. È tutt'altro che raro vedere uomini di grande cultura, ma di meschini sentimenti. Uomini simili mancano di ciò che io chiamo saggezza.

Non è soltanto nelle cose pubbliche, ma anche nelle private, che la saggezza è necessaria. È necessaria nella scienza dei fini da perseguire e nell'emancipazione dai pregiudizi personali. Anche un fine il cui perseguimento sarebbe nobile, se fosse raggiungibile, può venir perseguito con poca saggezza se è inerente a esso una impossibilità di attuazione. Nelle epoche passate, molti uomini hanno dedicato la vita alla ricerca della pietra filosofale e dell'elisir di lunga vita. Senza dubbio, se avessero potuto trovarli questo sarebbe stato un gran dono per l'umanità; di fatto, però, le loro vite furono sprecate. Per discendere a cose meno eroiche consideriamo il caso di due persone, il signor A e il signor B, che si odiano e a causa di questo odio reciproco si distruggono l'un l'altro. Supponiamo che voi andiate dal signor A e gli diciate: «Perché odiate il signor B? » Senza dubbio egli vi darà una lista schiacciante dei vizi del signor B, in parte vera e in parte falsa. Ora supponiamo che voi andiate dal signor B. Egli vi darà un elenco esattamente simile dei vizi del signor A, con un'eguale mescolanza di vero e di falso. Supponiamo che ora voi torniate dal signor A e gli diciate: «Vi farà meraviglia l'apprendere che il signor B dice di voi le stesse cose che voi dite di lui»; e che voi andiate dal signor B e gli facciate lo stesso discorso. Il primo effetto, senza dubbio, sarà di accrescere il loro odio reciproco poiché ciascuno sarà inorridito dall'ingiustizia dell'altro. Forse però, se sarete abbastanza paziente e abbastanza persuasivo, potrete riuscire a convincere ciascuno dei due che l'altro ha soltanto la misura normale della cattiveria umana, e che la loro inimicizia fa male a entrambi. Se riuscirete a far questo, avrete instillato in loro un qualche frammento di saggezza. 

Penso che l'essenza della saggezza sia l'emancipazione, per quanto possibile, dalla tirannia dell'adesso e del qui. Non possiamo liberarci dall'egoismo dei nostri sensi. La vista, l'udito e il tatto sono legati strettamente al nostro corpo e non possiamo renderli impersonali. In modo analogo, le nostre emozioni partono da noi stessi. Un bambino piccolo sente fame o disagio, e niente lo tocca tranne la sua condizione fisica. Gradualmente, con gli anni, il suo orizzonte si allarga e, a misura che i suoi pensieri e sentimenti divengono meno personali e meno preoccupanti dei suoi stati fisici, egli attinge un grado crescente di saggezza. Si capisce che è una questione di grado. Nessuno può guardare il mondo con un'imparzialità completa; e se qualcuno lo potesse, gli sarebbe assai difficile rimaner vivo. Ma è possibile avvicinarsi continuamente, per gradi, all'imparzialità, da un lato mediante la conoscenza di cose abbastanza remote nel tempo o nello spazio, e dall'altro lato attribuendo a simili cose, nei nostri sentimenti, il peso loro dovuto. È questo avvicinamento all'imparzialità che costituisce l'accrescimento della saggezza. 

La saggezza, intesa in tal senso, può essere insegnata? E, se lo può, l'insegnamento di essa non dovrebbe forse essere uno dei fini dell'educazione? Io risponderei affermativamente a tutt'e due queste domande. La domenica ci dicono che dobbiamo amare il nostro prossimo come noi stessi. Negli altri sei giorni della settimana, veniamo esortati a odiarlo. Potrete dire che questa è una sciocchezza, poiché non è il nostro prossimo, il nostro vicino, che veniamo esortati a odiare. Ma ricorderete che il precetto evangelico era esemplificato dicendo che il samaritano era il nostro vicino. Oggi giorno non abbiamo più nessuna inclinazione a odiare i samaritani, e quindi è facile che ci sfugga il senso della parabola. Per capirne il senso, dovrete sostituire comunista o anticomunista, secondo il caso, a samaritano. Si potrebbe obbiettare che è giusto odiare coloro che fanno del male. Io non lo penso. Se li odiate è anche troppo facile che diventiate voi stessi egualmente malefici; ed è molto improbabile che induciate loro ad abbandonare la mala condotta. L'odio del male è già di per sé una specie di asservimento al male. La via di uscita passa per la comprensione, non per l'odio. Io non sostengo qui la tesi della non-resistenza al male. Ma sostengo che la resistenza, perché possa impedire la diffusione del male, deve andare assieme al più alto grado di comprensione, e al minimo grado di forza compatibile con la sopravvivenza di quelle buone cose che desideriamo salvare. 

Si fa notare, comunemente, che un punto di vista del genere di quello che ho qui sostenuto è incompatibile con il vigore nell'azione. Non credo che la storia confermi tale opinione. La regina Elisabetta I in Inghilterra ed Enrico IV in Francia vissero in un mondo dove quasi tutti erano fanatici, dalla parte dei protestanti o da quella dei cattolici. Entrambi restarono immuni dagli errori del loro tempo ed entrambi, rimanendone immuni, furono benefici e certamente non inefficienti. Abraham Lincoln condusse una grande guerra senza mai partirsi da ciò ch'io ho chiamato saggezza. 

Ho detto che, in qualche misura, la saggezza può essere insegnata. Credo che questo insegnamento dovrebbe avere in sé un elemento intellettuale più largo di quello che è stato finora usuale in quella che viene considerata come istruzione morale. Credo che i disastrosi effetti dell'odio e della ristrettezza mentale su quegli stessi che provano tali sentimenti, possano essere fatti osservare incidentalmente nell'impartire la conoscenza. Non credo che conoscenza e morale debbano essere troppo separate. È vero che il genere di conoscenza specializzata che si richiede per i vari tipi della tecnica ha ben poco a vedere con la saggezza. Ma, nel processo educativo, la tecnica dovrebbe essere completata con osservazioni più vaste, intese a metterla al posto debito nel quadro delle attività umane. Anche i migliori tecnici dovrebbero essere al tempo stesso buoni cittadini; e quando dico «cittadini» voglio dire cittadini del mondo e non di questo o quel settore o nazione. A ogni accrescimento della conoscenza e della tecnica, la saggezza diviene più necessaria, poiché ognuno di questi accrescimenti aumenta la nostra capacità di attuare i nostri scopi, e perciò aumenta la nostra capacità di far del male, se i nostri scopi non sono saggi. Il mondo ha necessità della saggezza come mai prima d'ora; e se la conoscenza continua ad accrescersi, il mondo avrà in futuro una necessità della saggezza ancora più grande che non abbia ora.

lunedì 28 ottobre 2013

Crisi di identità (Tigri azzurre)

C’è un bellissimo racconto di Jorge Luis Borges, del cui amore per la matematica ho già parlato più volte, come qui, che mette in discussione l’identità quantitativa degli oggetti, ma anche l’identità psicologica del protagonista. Si tratta di Tigri azzurre, comparso per la prima volta, nella bella traduzione italiana di Gianni Guadalupi, nel volume che l’editore Franco Maria Ricci volle dedicare all'autore argentino in occasione del suo ottantesimo compleanno (J. L. Borges, Venticinque Agosto 1983 e altri racconti inediti, Franco Maria Ricci, Milano, 1980).

Ma che cosa si intende per identità? Dire che due cose sono identiche vuol dire che sono la stessa cosa? I filosofi, sin dai tempi di Aristotele, distinguono a questo proposito tra identità qualitativa e identità numerica. Le cose con identità qualitativa condividono le stesse proprietà, così possono essere più o meno qualitativamente identiche. I bassotti e i danesi sono identici qualitativamente, perché possiedono la qualità di essere cani, ma due bassotti avranno tra di loro un’identità qualitativa superiore. L’identità numerica richiede l’identità qualitativa assoluta, o totale, e si può dare solo tra una cosa e se stessa. Il suo nome implica il concetto che è la sola relazione di identità secondo la quale possiamo contare (o numerare) le cose: x e y si possono contare nello stesso modo solo nel caso in cui siano numericamente identiche. Possiamo contare nello stesso modo sette tigri e sette pietre azzurre perché sono numericamente identiche. Già tra le “nozioni comuni”, regole di deduzione logica ritenute evidenti ed intuitive che Euclide elencò dopo i postulati, troviamo che: 
a) se a cose uguali si aggiungono cose uguali si ottengono risultati uguali; 
b) se da cose uguali si tolgono cose uguali i resti sono uguali; 
c) cose che coincidono l'una con l'altra sono uguali l'una all'altra.

Il criterio di identità per i numeri è la cosiddetta equinumerosità: il numero di F è uguale al numero di G se, e solo se, ci sono esattamente tanti F quanti G. È su questa base che si può erigere l’edificio della matematica. Un edificio che in Tigri azzurre viene messo in discussione. 


Siamo nei primi anni del Novecento, nell'India coloniale. Alexander Craige, un professore scozzese di logica all'università di Lahore, appassionato di tigri fin dall'infanzia, viene informato dell’avvistamento in un remoto villaggio indiano di una varietà azzurra della specie. L’uomo, ossessionato da continui sogni di tigri azzurre, decide di catturarla e si reca sul posto, dove gli abitanti sembrano volerlo tenere lontano dall'altura boscosa che sovrasta l’abitato. Fiutato l’inganno, Craige decide una notte di avventurarsi da solo sulla collina. Ciò che trova in un anfratto illuminato dalla luna non è però la tigre, ma un mucchio di pietruzze circolari, lisce e regolari al punto da sembrare dischetti o monete, dello stesso colore azzurro delle tigri dei suoi sogni. Ne prende un paio di manciate e le mette nella tasca della giacca, facendo ritorno al villaggio. 

Al risveglio il professore scozzese fa una straordinaria scoperta: per un “osceno miracolo”, il numero dei dischi varia continuamente, aumentando o diminuendo ogni volta che lo sguardo dell’uomo si posa su di esse, resistendo a ogni tentativo di contarle. Dice il protagonista: “Guardavo fisso uno qualunque di essi, lo prendevo tra il pollice e l’indice, e quando era solo, erano molti”. Una volta venuti a sapere della sua scoperta, gli indigeni lo evitano e lo rispettano per timore. Il più anziano di essi gli dice che quelle “pietre che generano”, del “colore azzurro che è permesso vedere solo nei sogni” sono le tigri azzurre.


Uno storico delle religioni direbbe che Craige è divenuto per quegli indiani sacer, colui che non può essere avvicinato o toccato perché partecipe della natura divina, tremendum perché il suo potere fa tremare. Ma a tremare è soprattutto l’occidentale, perché l’identità mutevole delle pietre, la loro “indole mostruosa”, mette in discussione le sue certezze e la sua stessa identità. 

“Se mi dicessero che ci sono unicorni sulla luna, io accetterei o respingerei il giudizio, ma potrei immaginarli. Invece, se mi dicessero che sulla luna sei o sette unicorni possono essere tre, io affermerei a priori che il fatto è impossibile. Chi ha capito che tre più uno fa quattro, non fa la prova con monete, con dadi, con pezzi degli scacchi o con le matite. Non può concepire un’altra cifra”. 

Alexander Craige, che è un logico, coglie immediatamente la sconvolgente conseguenza dell’esistenza di quegli oggetti, che “contraddicono quella legge essenziale della mente umana”. Preferirebbe essere pazzo, “poiché la mia allucinazione personale importerebbe meno della prova che nell’universo è contenuto il disordine. Se tre più uno possono essere due o possono essere quattordici, la ragione è una follia”. Di certo non gli sfugge la messa in discussione che le tigri azzurre comportano per uno dei capisaldi della logica, la cosiddetta legge di Leibniz, o principio di identità degli indiscernibili: se non c'è modo di distinguere due enti, allora sono in verità un solo ed identico ente: Eadem sunt, quorum unum potest substitui alteri salva veritate (le cose delle quali l'una può essere sostituita dall'altra mantenendone intatta la verità, sono le stesse). 

Per Leibniz, il principio di identità non solo è la base delle verità logiche, ma di ogni verità. Tutte le verità prime “possono essere comprese sotto lo stesso nome di identità”, sia che si affermi esplicitamente “la medesima cosa circa se stessa”, sia che [si neghi] l’opposto del suo opposto”. Il principio di non contraddizione, è da questo punto di vista, un caso particolare di identità. Le verità non prime, cioè non immediatamente riconoscibili come identità, sono riducibili a identità mediante definizioni. L’identità è quindi una delle nozioni fondamentali della logica, e il principio di identità una legge senza la quale non è possibile il pensiero. 

Chissà che cosa avrebbe pensato il filosofo e matematico tedesco se avesse visto ciò che era sotto gli occhi di Craige! Non avrebbe più senso il concetto di numero, se le cose si rifiutassero di essere numerate, se un pentagono avesse cinque o sei lati, o sette, a seconda del tempo in cui lo si guarda. La percezione e il concetto non sarebbero più connessi. L'equinumerosità sarebbe una variabile dipendente dai capricci degli oggetti, o dal tempo. Già, il tempo, secondo Borges "un tremulo ed esigente problema".

L’identità nel tempo è controversa, perché il tempo comporta cambiamento. Eraclito diceva che non ci si bagna mai nello stesso fiume, perché l’acqua è sempre diversa. Hume pensava che l’identità nel tempo è una finzione, con la quale noi spieghiamo una collezione di oggetti in qualche modo in relazione, e Borges commentava questa idea come "un mondo d'impressioni evanescenti; un mondo senza materia né spirito, né oggettivo né soggettivo; un mondo senza l'architettura ideale dello spazio;…un labirinto irriducibile, un caos, un sogno." Questi punti di vista si possono considerare basati su un fraintendimento della legge di Leibniz per il quale, se una cosa cambia, qualcosa di essa è vera in un tempo successivo che non era vera in un tempo precedente, così non è più la stessa. Si può tuttavia rispondere che ciò che di essa è vero in un tempo successivo rimane vero, così come ciò che era vero in un tempo precedente, è sempre vero. Si tratta allora di stabilire criteri di identità che consentano di superare queste difficoltà. 

Per i concetti, gli oggetti astratti, si può pensare che la loro identità permane nel tempo: due rette a e b nel piano euclideo, se sono parallele all'istante t0, continuano a esserlo in qualsiasi istante tn successivo. Ciò vale anche per il concetto di numero. Un insieme di sette pietre può essere associato al numero sette e alla cifra che lo rappresenta, sempre che non si tratti di pietre azzurre indiane (o di particelle elementari!) e si prescinda dal fatto che l’idea di numero nasce dall'osservazione di insiemi di oggetti reali: 

“Maneggiando le pietre che distruggono la scienza matematica, pensai più di una volta a quelle pietre del greco che furono i primi numeri e che hanno legato a tanti idiomi la parola “calcolo”. La matematica, mi dissi, ha la sua origine e ora la sua fine nelle pietre. Se Pitagora avesse operato con queste…” 


Per gli oggetti reali le cose sono più complicate che per i concetti. In questo caso è necessario stabilire un criterio di identità del tipo “x è in t lo stesso F come lo è y in t′ se e solo se…” Ad esempio, una pietra continua a essere lo stesso oggetto di prima se e solo se conserva la natura chimica, il colore, la forma. Ma ciò comporta anche che si stabiliscano criteri di identità nello spazio (e qui è meglio non approfittare della pazienza del lettore). 

Nel caso delle persone, dove non ci si può limitare all'identità del corpo, un criterio di identità diacronica potrebbe essere: "x è in t la stessa persona come y in t’ se, e solo se, c’è continuità psicologica tra x in t e y in t’", ma questo criterio si può contestare nel caso di alcune gravi patologie psichiatriche o degenerative, il cui sintomo principale è proprio la perdita della percezione della propria individualità psicologica. E poi, può esistere continuità psicologica in un mondo dove esistono le tigri azzurre? 

Alla fine Craige cede le pietre azzurre a un mendicante cieco in una moschea di Lahore. Gli dice: 

“Voglio che tu sappia che la mia elemosina può essere spaventosa.” 
Mi rispose: 
“Forse questa elemosina è l’unica che posso ricevere. Ho peccato.” 
Lasciai cadere tutte le pietre nella mano concava. Caddero come in fondo al mare, senza il minimo rumore.
Poi mi disse: 
“Non so ancora qual è la tua elemosina, ma la mia è spaventosa. Ti rimangono i giorni e le notti, il buon senso, le abitudini, il mondo.” 
Non udii i passi del mendicante cieco né lo vidi perdersi nell'alba.