lunedì 28 giugno 2010

Circonferenze che si baciano


Il teorema di Descartes è la formula che esprime la relazione tra quattro circonferenze tangenti l’una all’altra, chiamate in inglese kissing o osculating circles ("circonferenze che si baciano"). Il teorema fu dimostrato da Cartesio nel 1643, in una lettera alla principessa Elisabetta de Hervorden (figlia di Elisabetta di Boemia).

Dati tre punti distinti, facendo centro in essi si traccino tre circonferenze tangenti tra di loro. Si osserva che ci sono esattamente due circonferenze tangenti alle tre circonferenze date, una interna e una esterna. Cartesio calcolò la relazione tra i raggi delle tre circonferenze date e quello di una delle due circonferenze tangenti alle prime tre:


nella quale con αn si indica la curvatura, che è il reciproco del raggio dell’n-esima circonferenza.


La formula fu riscoperta nel 1826 dal matematico svizzero Jacob Steiner. Nel 1842 fu provata indipendentemente anche dal matematico dilettante inglese Philip Beecroft.

Date tre circonferenze tangenti, il raggio della quarta circonferenza, interna o esterna, può essere calcolato così:


Le circonferenze che si baciano sono chiamate anche circonferenze di Soddy, dal nome di Frederick Soddy (1877-1956), il chimico e fisico inglese che coniò nel 1913 il termine isotopo per indicare atomi dello stesso elemento chimico (stesso numero atomico), ma con un diverso numero di neutroni nel nucleo (diverso numero di massa). Soddy ottenne il premio Nobel per la chimica nel 1921. Che il nome di Soddy sia associato a quello delle quattro circonferenze tangenti è dovuto al fatto che egli pubblicò su Nature del 20 giugno 1936 la poesia The Kiss Precise (“Il bacio preciso”), in cui illustrava in versi il teorema di Cartesio. Soddy fornì anche una dimostrazione del teorema estesa al caso di sfere tangenti. Di seguito riporto l’originale inglese che apparve sulla rivista scientifica con un mio tentativo di traduzione:

For pairs of lips to kiss maybe
Involves no trigonometry.
'T is not so when for circles kiss
Each one the other three.
To bring this off the four must be:
As three in one or one in three.
If one in three, beyond a doubt
Each gets three kisses from without.
If three in one, then is that one
Thrice kissed internally.

Four circles to the kissing come.
The smaller are the benter.
The bend is just the inverse of
The distance form the center.
Though their intrigue left Euclid dumb
There's now no need for rule of thumb.
Since zero's bend's a dead straight line
And concave bends have minus sign,
The sum of the squares of all four bends
Is half the square of their sum.

To spy out spherical affairs
An oscular surveyor
Might find the task laborious,
And now besides the pair of pairs
A fifth spere in the kissing shares.
Yet, signs and zero as before,
For each to kiss the other four
The quare of the sum of all five bends
Is thrice the sum of their squares.

Coppie di labbra che si baciano forse
non coinvolgono la trigonometria.
Non è così per circonferenze che si baciano
ciascuna le altre tre.
Per avere ciò quattro devono essere;
o tre dentro una o una dentro tre.
Se una è dentro tre, senza dubbio,
lei riceve tre baci dall’esterno,
se tre son dentro una, allora è una
baciata tre volte internamente.

Quattro vennero a baciarsi.
La più piccola è la più curvata.
La curvatura è proprio l’inverso
della distanza dal centro.
Sebbene questa tresca lasciò Euclide senza parole
non c’è bisogno di nessuna regola generale.
Poiché con curvatura zero è una linea retta
e curvature concave hanno segno meno,
la somma dei quadrati di tutte le quattro curvature
è metà del quadrato della loro somma.

Ad osservare relazioni sferiche
un geometra del bacio
può trovare il compito laborioso.
Perché ora, oltre alla coppia di coppie,
una quinta sfera condivide il bacio.
Però essendo i segni e lo zero come prima,
per baciare ciascuna le altre quattro,
il quadrato della somma di tutte cinque le curvature
è tre volte la somma dei loro quadrati.

L’inglese Thorold Gosset (1869–1962), avvocato e grande matematico per diletto, aveva scoperto e classificato nel 1900 i politopi regolari e semiregolari nello spazio a 4 e più dimensioni (On the Regular and Semi-Regular Figures in Space of n Dimensions): i politopi n-dimensionali o n-politopi sono i poligoni nel piano (n = 2), i poliedri nello spazio tridimensionale (n = 3) e le figure in uno spazio n-dimensionale con n ≥ 4. I poligoni si possono quindi anche chiamare 2-politopi e i poliedri 3-politopi. Gosset aggiunse alla poesia di Soddy una coda riguardante la geometria a dimensioni maggiori di 3:

And let us not confine our cares
To simple circles, planes and spheres,
But rise to hyper flats and bends
Where kissing multiple appears.
In n-ic space the kissing pairs
Are hyperspheres, and Truth declares-
As n + 2 such osculate
Each with an n + 1-fold mate.
The square of the sum of all the bends
Is n times the sum of their squares.

Non dobbiamo limitare le nostre attenzioni
a semplici circonferenze, piani e sfere,
ma saliamo a iper-piani e curvature
dove i baci multipli si presentano.
In spazi n-esimi le coppie di baci
sono ipersfere, ed è la Verità,
poiché n + 2 di queste si toccano
ciascuna con una (n +1)esima compagna.
Il quadrato della somma di tutte le curvature
è n volte la somma dei loro quadrati.


Le circonferenze di Soddy sono oggetto di attenzione di illustri matematici da più di tre secoli e mezzo, eppure non smettono di riservare sorprese. Nel 2001, David Eppstein, professore di Computer Sciences all’Università di California, ha pubblicato la seguente osservazione:

Quattro circonferenze tangenti, se prese due a due, definiscono due punti di tangenza e, pertanto, una linea retta. Esistono tre di queste rette. Le tre rette sono concorrenti.


Risparmio al lettore frettoloso la dimostrazione, che i più curiosi e volonterosi potranno trovare, assieme a molte altre cose, su Cut the Knot.


sabato 26 giugno 2010

Il purgatorio di San Patrizio


Nella tarda estate del 1358 il cavalier Malatesta da Rimini, detto Ungaro per aver ricevuto la dignità cavalleresca da re Luigi d'Ungheria, raggiunse la meta del suo viaggio e si accingeva a sottoporsi alla prova. Lo accompagnava il fedele Nicolo Beccari da Ferrara, poeta e cortigiano, con il quale era partito nel febbraio precedente per una lunga peregrinazione che li aveva condotti in giro per l’Europa e infine in Irlanda. Malatesta Ungaro non era nuovo ai viaggi in terra straniera: nove anni prima, poco più che ventenne, era stato pellegrino a Gerusalemme, al seguito del suo illustre parente Galeotto Malatesta, signore di Rimini.

Per molti esponenti delle grandi famiglie italiane di quel secolo (e di quello successivo), il pellegrinaggio combinava insieme motivi devozionali, un certo gusto per l'esotico e l'amore per l’aventure, carattere irrinunciabile d'ogni cavaliere degno di rispetto. Una delle mete preferite dai più avventurosi fu, negli ultimi tre secoli del Medioevo, il Purgatorio di san Patrizio, che veniva situato su un’isoletta al centro di un piccolo lago irlandese ai confini tra le province del Donegal e dell'Ulster. Questo luogo, il Lough Dergh, omonimo di un lago più grande situato nel sud dell’isola, ospitava una vera e propria porta dell'Aldilà, la cui soglia si varcava mossi non solo da intenti religiosi o penitenziali, ma anche dal desiderio di conoscenza, dalla volontà di sfidare l'ignoto e dall'intenzione di affrontare una prova iniziatica.

Quali motivi avevano allora spinto Malatesta Ungaro sulle sponde di quel nebbioso lago nell'estremo occidente europeo? La sollecitudine verso le anime dei defunti? Il desiderio d'espiare delle colpe? Niente di ciò: le cronache affermano che egli confessò uno scopo eminentemente profano, vale a dire comunicare con lo spirito della sua amante, uccisa dal marito, prolungare per qualche istante il suo rapporto amoroso, al di là delle barriere della morte. Un'intenzione poco ortodossa, dunque, anche se lodevole, collocata in una cornice che appare completamente cristiana.

L'idea del Purgatorio, non presente originariamente, si andò formando, all'interno del cristianesimo, in un lungo intervallo tra il III e XII secolo, come evoluzione della credenza, apparsa molto presto e attestata nella liturgia e nell'epigrafia funeraria, di poter riscattare certi peccati dopo la morte. Inizialmente localizzata in certe pratiche, come le preghiere e i suffragi per i defunti, la fiducia in un'espiazione post mortem delle pene temporali dovute alle colpe commesse in vita trovò solo successivamente un debole fondamento teologico nelle Scritture. Le basi teoriche dell'esistenza del Purgatorio furono gettate da Agostino d’Ippona e da Gregorio Magno, che ne prefigurò l'immaginario con la descrizione delle pene. La vasta letteratura delle visioni dell'Aldilà aprì la strada alle rappresentazioni del Purgatorio giunte fino ad oggi.

Definito alla fine del XII secolo (quando comparve per la prima volta il sostantivo purgatorium, proprio in riferimento al Lough Dergh), il Purgatorio entrò a pieno titolo nel cristianesimo nel secolo successivo, sia a livello dogmatico, sia a livello teologico, con la sua piena integrazione nella speculazione dei maestri della Scolastica, sia a livello delle masse dei fedeli, con la catechesi e le storie e gli aneddoti edificanti contenuti negli exempla, i repertori scritti ad uso dei predicatori.

All'evoluzione dell'idea di un luogo del Purgatorio e delle sue rappresentazioni contribuirono grandemente le descrizioni di visioni o di viaggi nell'Aldilà, che avevano già una lunga tradizione nella letteratura precristiana (come ad esempio la discesa di Enea nell'Ade). Dapprima occultati dalla volontà della chiesa di distruggere il folklore, assimilato al paganesimo, i racconti di esperienze di viaggi oltremondani fiorirono a partire dal VII secolo, soprattutto in ambiente monastico, dove gli elementi popolari potevano essere filtrati dall'elemento cristiano, ed esplosero infine nei secoli XI e XII, quando si ebbe un rinato interesse per la cultura folklorica a causa dell'accesso dei laici alla cultura scritta.

Nelle visioni medievali dell'Aldilà, il protagonista è il più delle volte un monaco, ma può essere un laico, che è trasportato in sogno, o accede con il corpo o con la sola anima, in una dimensione soprannaturale, dove di solito è guidato da un santo o da un angelo. Il mortale visita successivamente i luoghi infernali, dove assiste ai supplizi inflitti ai dannati, e il Paradiso, dove ha visione delle beatitudini celesti. Spesso quest'Aldilà è organizzato, talvolta gerarchicamente, in luoghi specializzati, secondo il tipo di dannati o di beati. A partire dalla fine del XII secolo compare esplicitamente una zona intermedia, solo accennata nelle visioni dei secoli precedenti: si tratta del Purgatorio, dal quale le anime, mondate delle loro colpe dopo aver patito un periodo più o meno lungo di tormenti e sofferenze, potranno uscire per raggiungere il Paradiso. In questo grande insieme di visioni, che raggiungerà il suo culmine artistico e concettuale nella Divina Commedia di Dante Alighieri, si colloca la leggenda relativa al Purgatorio di san Patrizio, che occorre analizzare prima di incontrare di nuovo Malatesta Ungaro.

II primo accenno al Purgatorio di san Patrizio compare nella Vita del santo, redatta tra il 1180 e il 1183 da un certo Jocelyn di Furness. Secondo il suo racconto, san Patrizio non riusciva a convertire gli Irlandesi e, con una tecnica consueta degli evangelizzatori (almeno nei componimenti agiografici) voleva spaventarli con l'immagine delle pene destinate a chi non voleva ascoltarlo. L'autore afferma che al santo comparve allora Gesù, che gli mostrò una cavità tonda e oscura, non si comprende se pozzo o grotta, e gli assicurò che chiunque, dopo essersi mondato dei peccati, avesse trascorso un giorno e una notte interi al suo interno avrebbe visto le pene che attendevano i malvagi e il premio che spettava ai buoni. Il santo fece allora recintare la fossa con un muro chiuso da una porta e ordinò di edificare una chiesa nei dintorni: la tradizione colloca l’episodio nel 445. La chiave della porta fu affidata al priore dei canonici posti a servire la chiesa, il futuro san Dabheog, con la disposizione che tutti i penitenti che avessero affrontato la prova dovevano poi scrivere una relazione su quanto avessero visto. Jocelyn di Furness collocò il luogo del Purgatorio di san Patrizio sopra un monte del Connaught, nella parte occidentale dell'isola, ma la sua scelta, come si vedrà, non ebbe fortuna.

Il successo internazionale del Purgatorio di san Patrizio si deve però all'opera di H. (i codici non dicono di più sul suo nome), monaco dell'abbazia cistercense di Saltrey. Nel Purgatorium Sancii Patricii (redatto tra il 1190 e il 1210), H. di Saltrey narra la storia del cistercense Gilberto, il quale fu inviato in Irlanda ai tempi di re Stefano d'Inghilterra (cioè tra il 1135 e il 1154). Non conoscendo la lingua di quel paese, il monaco scelse come guida il cavaliere Owein. Questi gli raccontò che, dopo una vita di peccato, fu preso dal pentimento e volle scontare da vivo la pena che temeva di dover pagare dopo la morte. Si fece introdurre a tal fine nel luogo misterioso, passando attraverso una porta rigorosamente sorvegliata da monaci e alla quale non si perveniva se non dietro l'approvazione del vescovo della diocesi locale e del priore della chiesa vicina. Entrambi sconsigliavano chi intendeva intraprendere la prova (se ci si lasciava sedurre dalle tentazioni dei demoni, si veniva condotti direttamente all'Inferno senza possibilità di ritorno). Di fronte all'ostinazione del cavaliere, i due finirono tuttavia per acconsentire, imponendogli un periodo preparatorio di digiuno e preghiera nella chiesa vicina e consigliandolo di invocare il nome di Gesù qualora non si fosse sentito in grado di reggere fino alla conclusione della prova.

Penetrato infine nella grotta, Owein attraversò, sempre secondo H. di Saltrey, vari luoghi di punizione. Dovunque vide i castighi a cui erano assoggettate le anime secondo un immaginario cristiano ormai consolidato. Anch'egli ricevette la parte che gli spettava, aggredito, tentato, minacciato e deriso dai demoni che somministravano quelle pene e da quelli che lo conducevano nella "visita", sempre salvato in extremis dall'invocazione del nome divino. Giunse infine ad un ponte strettissimo, gettato sopra il fiume infernale di fuoco, che tuttavia si allargava man mano che egli procedeva nel cammino. Superatolo, si trovò in un'amena campagna, di fronte ad un altissimo muro che cingeva una splendida città, che altro non era che il Paradiso Terrestre. Varcata la porta, una processione di santi si fece incontro ad Owein e gli fece lieta accoglienza nella città divina, mostrandogli le meraviglie di quel luogo di beatitudine. Dopo tale avventura, purgato d'ogni peccato, il cavaliere tornò all'esterno. Trascorsi quindici giorni di preghiera nella solita chiesa, egli fece ritorno al mondo. L'esperienza l'aveva comunque sconvolto, in quanto Owein si era poi fatto crociato e si era recato in Terrasanta.

H. di Saltrey non indica il luogo in cui si doveva trovare il Purgatorio di san Patrizio, che tuttavia ebbe la sua sistemazione proprio in quegli anni. In una nota a margine di un manoscritto datato alla seconda metà del XIII secolo della Topographia Hibernica di Gerardo di Cambria (il quale aveva composto la sua opera nel 1188 dopo aver visitato l'isola) compare, infatti, una seconda localizzazione, che si sarebbe rivelata come quella definitiva. Secondo la nota, vi sarebbe nell'Ulster un lago con un'isola divisa in due parti: l'una, bella e ricca di giardini, ospita una chiesa, l'altra, orribile e desolata, è abitata da demoni. La seconda parte dell'isola è disseminata di nove cavità: chi osi passare la notte in una di esse è preso dai diavoli ed è tormentato così brutalmente da restarne inanimato; dopo la morte egli sfuggirà tuttavia alle pene infernali, delle quali ha già fatto la prova in vita. Con tutta probabilità l'ignoto glossatore fa riferimento ad un culto che avveniva presso il Lough Dergh. Nel lago vi sono proprio due isole, delle quali la più grande, Saints' Island, ospita una chiesa, oggi dedicata a san Patrizio (e a chi se no?), mentre la seconda, Station Island, è il luogo della porta del "Purgatorio", di cui rimane la tradizione di pellegrinaggi devozionali di chiara impronta cattolica e nazionale.

La fama del Purgatorio di san Patrizio si propagò rapidamente nella cristianità grazie a Matteo Paris, che nel XII secolo divulgò il racconto di H. di Saltrey, e alla poetessa Maria di Francia, che tradusse il testo in francese ne L'Espurgatoire Saint Patriz. La storia si diffuse attraverso rifacimenti e versioni in volgare in tutto l'occidente, anche perché fu ampiamente utilizzata dai grandi autori di exempla del XIII secolo con lo scopo evidente di spaventare i fedeli, più o meno tiepidi, e ricondurli sotto il pieno controllo del clero. Il Purgatorio di san Patrizio figurava spesso nei sermoni dei predicatori, circostanza che contribuì in modo straordinario alla sua fama.


Jocelyn di Furness informa nella sua opera che chi visitava il Purgatorio di san Patrizio era tenuto a riferire per iscritto su ciò che aveva visto. Sfortunatamente, il resoconto di Malatesta Ungaro è andato perduto, ma è improbabile che non sia mai stato scritto. Si sa infatti che il cavaliere e il suo compagno di viaggio ricevettero, secondo la prassi consueta, una patente del re d'Inghilterra del 24 ottobre 1358, giunta fino a noi, in cui si attesta che le formalità della prova erano state rispettate. Non si sa perciò che cosa vide, o credette di vedere, Malatesta Ungaro, né se riuscì a incontrare il suo perduto amore. Esistono tuttavia alcuni testi coevi, o di poco posteriori, che consentono di ricostruire il tipo d'esperienza che vivevano gli ardimentosi che intraprendevano la discesa nella grotta.

La prima testimonianza proviene dal cavaliere Ludovico di Sur, che visitò il Purgatorio il 17 settembre 1358 e, al termine della prova, vide l'arrivo di Malatesta nell'isola. Dopo un periodo preparatorio di preghiera e digiuno, Ludovico era stato condotto da dodici monaci in una grotta lunga sette passi, larga due e alta quattro palmi. Trascorsa circa mezz'ora, gli era apparso un uomo vestito di bianco, che l'aveva esortato ad iniziare il viaggio. Discese alcune scale, il cavaliere si trovò in un'ampia sala, nella quale tre monaci lo redarguirono per la sua temerarietà e gli prospettarono le tentazioni che avrebbe subito e i tormenti ai quali avrebbe assistito, contro i quali sarebbe bastato segnarsi tre volte e recitare un passo evangelico. Il racconto prosegue con la descrizione dei tormenti infernali, con la simpatica variante, rispetto alla narrazione di Owein, che le tentazioni non sono opera di demoni, ma di belle ragazze!

Molto interessante è il racconto dell'esperienza del cavaliere inglese William Lisle, che era stato in Irlanda nel 1394 ed era stato rinchiuso con un compagno nella caverna di Station Island per un'intera notte. Durante la discesa era stato avvolto da vapori caldi e s'era addormentato d'un sonno pieno di strani sogni. Ciò lo indusse a ritenere che le "visioni" del luogo non fossero altro che illusioni. Il riferimento ai vapori caldi può essere una reminiscenza di letture classiche, ma il cavaliere sembra degno di fede. Questi vapori potrebbero fornire una spiegazione razionale delle visioni che si avevano nella grotta del Purgatorio. Molti luoghi sacri dell'antichità, talvolta sedi di oracoli e sibille, sono situati in aree caratterizzate da intensa attività sismica, vulcanica o geotermica dove, dalle fratture del terreno, avviene l'emissione di gas, alcuni dei quali (come il metano o l’anidride carbonica) possono determinare direttamente o indirettamente stati di alterazione sensoriale e modificare la percezione della realtà. Tuttavia il Lough Dergh non è un lago d'origine vulcanica. L’Irish Geological Survey informa che le rocce della zona sono scisti derivanti dall’azione metamorfica dell’orogenesi caledoniana sui graniti basali che caratterizzano tutta la zona nord–occidentale dell’Irlanda. In queste condizioni è probabile l’emissione di radon, il gas radioattivo di cui è attestata la cancerogenicità dopo lunga esposizione, ma che tuttavia, nonostante gli entusiasmi di alcuni professionisti dei misteri, non sembra poter provocare fenomeni allucinatori.

Come spiegare allora le visioni del Purgatorio di San Patrizio? Le diverse rappresentazioni dell'Aldilà che sono state date nel tempo dalle varie culture, pur presentando elementi comuni, costituiscono anche il riflesso delle esperienze e delle ansie terrene di coloro che le hanno prodotte: i racconti di viaggi o di visioni oltremondane non sono fine a se stessi, ma hanno sempre come referente il mondo dei vivi, ai quali sono indirizzati. Allora la descrizione dell'Altro Mondo o dell'Aldilà può costituire un'esortazione a godersi la vita oppure a disprezzarla, può essere un espediente per fare della critica sociale o politica, può essere un mezzo per sottomettere le coscienze, agitando lo spauracchio delle pene future. Le reazioni prodotte negli uomini sono spesso il risultato delle descrizioni che vengono date della loro sorte dopo la morte. Tornando al Purgatorio irlandese, non si può escludere che le parole e i riti dei monaci dentro e fuori la grotta o la suggestione determinata dalla fama del luogo potessero costituire fattori culturali in grado di provocare la visione "reale" dei tormenti infernali o delle beatitudini celesti.

Una singolare conferma di questa ipotesi si può trovare in una lettera spedita dal fiorentino Antonio di Giovanni Martini ad un concittadino, nella quale è descritta la sua esperienza di discesa nel Purgatorio irlandese, avvenuta nel novembre del 1411. Le fasi della preparazione alla prova sono descritte accuratamente: il digiuno di tre giorni a pane e acqua, la vestizione con una lunga veste bianca (simile ad un sudario), la recita da parte dei monaci dell'ufficio dei morti sopra il pellegrino disteso supino, la processione intorno alla cappella posta accanto all'ingresso della grotta, il "seppellimento" in uno stretto antro più simile ad un sepolcro che ad una grotta. Sembra quasi che questo complesso rituale facesse parte di una tecnica consolidata per suggestionare il pellegrino, il quale, infatti, riferisce di essersi sentito molto debole e di aver visto cose che non può scrivere o dire se non in confessione. Antonio di Giovanni Martini fu estratto dalla grotta in stato d'incoscienza dopo sole cinque ore. Ai tempi degli hippies si sarebbe parlato di bad trip, ma ognuno ha i “viaggi” che si merita e le visioni che gli impone l'immaginario della sua cultura.

martedì 22 giugno 2010

Caravaggio e la camera oscura


Nella Cena di Emmaus (1602) del Caravaggio (1571- 1610), conservato a Londra, la mano destra del discepolo Cleofa appare più grande rispetto alla sinistra. David Hockney, delle cui teorie ho parlato nel precedente articolo, considera questo errore visuale come una prova dell’uso di una camera oscura da parte dell’artista. Egli spiega questa anomalia della mano come “una conseguenza dei movimenti [in avanti e all’indietro] di lente e tela durante la rimessa a fuoco, a causa di problemi di profondità di campo”, avanzando la teoria che il pittore lombardo non solo avesse a disposizione una camera oscura naturale (riflessione sulla tela), ma anche una lente (proiezione sulla tela). L’immagine era poi disegnata e risultava di un realismo assai dettagliato. Questo metodo, afferma Hockey, era tenuto segreto dagli artisti. Tuttavia, anche in questo caso le idee dell'artista inglese hanno suscitato le critiche di vari studiosi. Ad esempio, David Stork ha parlato di “imbarazzanti implicazioni della teoria legate alla rimessa a fuoco, al movimento della tela e all’illuminazione.”, proprio riguardo alla Cena di Emmaus.

Stork afferma che la Cena di Emmaus solleva un certo numero di dubbi sia per le spiegazioni specifiche fornite da Hockney sia per la sua teoria in generale. La sua confutazione, basata su complessi calcoli, prende le mosse dall’assunto che Caravaggio abbia usato uno specchio concavo per ingrandire le immagini. In realtà Hockey afferma che il pittore fece uso di una lente biconvessa (una lente d’ingrandimento). Anche l’obiezione relativa all’illuminazione, sollevata da Stork, si scontra, secondo Hockey, con la testimonianza del medico e collezionista d’arte Giulio Mancini (1558-1630), conoscente del Caravaggio. Egli sostenne che una “caratteristica della scuola [di Caravaggio] è l’illuminazione da una sorgente sola, che si irradia dall’alto senza riflessione, come succede da una finestra in una stanza con le pareti dipinte di nero”. Perché Mancini doveva specificare che c’era una sola finestra se voleva indicare le migliaia di candele indicate da Stork?

Una risposta alternativa al problema dell’illuminazione è giunta da Roberta Lapucci, direttrice del Dipartimento di Restauro dell'Università americana di Firenze e docente all'Università Statale della stessa città. La ricercatrice, che appoggia l’idea dell’uso di una camera oscura, afferma infatti che, da alcune prime analisi, si è trovata una diffusa presenza in molti quadri del Caravaggio di sostanze fluorescenti, in particolare di sali di mercurio. La sua ipotesi è che il pittore, dovendo disegnare in una camera priva di luce, usasse spalmare sulla tela dei sali di mercurio, la cui fluorescenza poteva garantirgli di vedere dove tracciare i segni.

La camera oscura più semplice è un dispositivo ottico che proietta un’immagine su uno schermo. Essa consiste di una scatola o di una stanza (“camera”, appunto) con un forellino in uno dei lati. La luce proveniente da una scena esterna passa attraverso il foro e colpisce una superficie sulla parete interna opposta, dove viene riprodotta capovolta, ma con i colori e la prospettiva preservati. L’immagine può essere proiettata sulla carta e può allora essere tracciata in modo da produrre una rappresentazione accurata del vero. Utilizzando uno specchio, come si faceva nel Settecento, è possibile ottenere un’immagine non ribaltata. Tanto più il forellino è piccolo, tanto più nitida è l’immagine che si ottiene, ma essa risulta più scura. Inoltre un foro d’entrata molto piccolo produce un offuscamento dovuto alla diffrazione. Per questo motivo si applica una lente sul foro in modo da consentire un’apertura maggiore che dà una luminosità sufficiente mantenendo la messa a fuoco.

Sebbene Aristotele, Euclide e i cinesi conoscessero il fenomeno ottico della camera oscura e il matematico arabo dell’XI secolo Alhazen (morto nel 1038 al Cairo) ne avesse scritto diffusamente, furono gli italiani nel XVI secolo che fecero passi da gigante nello sviluppo di questo fenomeno ottico naturale verso quella che sarebbe con il tempo diventata la nostra moderna macchina fotografica. Nel 1515 Leonardo descrisse nel Codice Atlantico un procedimento per disegnare edifici e paesaggi dal vero che consisteva nel creare una camera oscura nella quale veniva praticato un unico foro su una parete, sul quale veniva posta una lente regolabile. Sulla parete opposta si proiettava così un'immagine fedele e capovolta del paesaggio esterno, che poteva essere copiata su un foglio di carta appositamente appeso, ottenendo un risultato di discreta qualità. Il veneziano Ettore Ausonio (ca. 1520 - ca. 1570) fu il primo a tentare di integrare i problemi della posizione del punto focale e della formazione delle immagini in uno specchio concavo. Ausonio chiarì che il punto focale di un tale specchio coincide con il punto in cui cambia l’orientazione dell’immagine visibile nello specchio stesso. Il milanese Girolamo Cardano (1501-76) fu invece il primo a descrivere, nel 1550, l’uso di una lente biconvessa come miglioramento della camera oscura. Il nobile veneziano Daniele Barbaro (1513-1570) fu in grado, nel 1569, di descrivere nella Pratica della prospettiva un tale dispositivo, equipaggiato sia di una lente biconvessa sia di un diaframma. Anche l’intellettuale, alchimista e filosofo napoletano Giovanni Battista Della Porta (1538-1615), vero mago rinascimentale, scrisse diffusamente della camera oscura nelle varie edizioni del Magiae naturalis sive de miraculis rerum naturalium, compendiato in volume unico nel 1584. Egli diede consigli su come gli artisti potevano usare le sue invenzioni, dalla realizzazione di copie accurate all’esecuzione di ritratti somiglianti.


Barbaro suggeriva anche come rendere più nitida l’immagine, riducendo l’apertura e muovendo il supporto per il disegno in avanti e all’indietro. Il che è esattamente quello che Hockney suppone che abbia fatto Caravaggio durante la realizzazione della Cena di Emmaus. Ciò non prova che Caravaggio abbia utilizzato la camera oscura oppure ne fosse informato, ma la cronologia gioca a favore dell’ipotesi che egli abbia potuto farlo. Ciò che Hockney non è riuscito a provare è un legame specifico tra il Caravaggio e queste opere teoriche. Egli afferma che questa conoscenza era un segreto strettamente custodito, senza spiegare come mai il Della Porta scrivesse e pubblicasse dell’argomento proprio negli anni in cui il pittore si recò a Roma per la prima volta. È vero che nel 1592 il Della Porta fu temporaneamente arrestato dall’Inquisizione e i suoi libri furono messi all’Indice fino al 1598, sembra più per i suoi studi sulla filosofia occulta e le sue amicizie sospette (come Tommaso Campanella e Paolo Sarpi) che per quelli sulla camera oscura, ma non pare, come non parve agli inquisitori, che egli custodisse un occulto sapere riguardo agli studi di ottica.

La rete di collegamenti tra Caravaggio e i contemporanei progressi nella tecnologia della camera oscura è tuttavia interessante. Ad esempio, c’era un legame indiretto tra il mecenate del pittore della fine del Cinquecento, il Cardinal Del Monte, e il già citato nobile veneziano Daniele Barbaro. Nel 1545, Tiziano (c.1490-1576) aveva dipinto il suo ritratto. Questo piccolo dipinto mostra gli attributi realistici che Hockney associa all’uso della tecnologia della camera oscura come ausilio alla pittura, specialmente di ritratti. Una decina d’anni dopo questo ritratto, Barbaro propone l’uso della camera oscura ai pittori e, come afferma R. Noughton nel suo The Camera Obscura: Aristotle to Zahn (2003), “descrivendo l’uso delle lenti convesse, egli mostra che l’immagine è più nitida e il suo contorno può essere perciò seguito con una matita”. È difficile immaginare che Tiziano fosse disinteressato alle teorie sul disegno di Barbaro o che l’intellettualmente attivo Barbaro se ne stesse seduto mentre il pittore eseguiva il suo ritratto senza farne menzione. Ovviamente Tiziano era un grande artista e, se fece uso davvero del dispositivo, doveva farlo saltuariamente. Comunque Barbaro posò per quel ritratto, e Tiziano compare tra i testimoni del battesimo nel 1549 a Venezia del futuro Cardinal Del Monte, che crescendo sarebbe divenuto il primo grande protettore di Caravaggio all’inizio del XVII secolo. Così Tiziano doveva essere un amico del padre di Del Monte, il cui figlio finirà con il proteggere Caravaggio.

Caravaggio era circondato da persone che si intendevano di ottica o che stavano studiando l’argomento. Il Cardinal Del Monte doveva sicuramente conoscere l’opera del Della Porta. Michael Gorman, nel suo saggio Art, optics and history: new light on the Hockney thesis (2003), sostiene che il fratello del prelato, Guidobaldo, era in corrispondenza con la veneziana Giacoma Contarini, che “supervisionò personalmente la costruzione della nuova camera oscura del Della Porta a Venezia.” Della Porta era stato a Venezia nel 1580 e, su consiglio della Contarini, incontrò a Murano un artigiano del vetro capace di realizzare un particolare specchio che stava cercando, da abbinare a una lente biconvessa per raddrizzare l’immagine proiettata nella camera oscura. “Il risultato di questo lavoro fu un dispositivo che proiettava immagini diritte ingrandite”, sostiene Gorman. Questa notizia fu pubblicata nella seconda edizione del Magiae Naturalis nel 1589 (o nel 1591 secondo altre fonti).

La maturazione artistica del Caravaggio segue il percorso indicato da Hockney e Falco per lo sviluppo dell’utilizzo di dispositivi ottici nella pittura. Un suo contemporaneo, anch’egli pittore e biografo di artisti, il romano Giovanni Baglione (c.1566-1643), affermò che c’erano “alcuni piccoli quadri [del Caravaggio] ritratti con uno specchio”. Hockney sostiene che lo specchio di cui parla Baglione sia in effetti uno specchio concavo. Con questo dispositivo l’immagine utilizzabile non è mai più grande di 30 centimetri di larghezza; si tratta di una caratteristica di tutti gli specchi concavi, non importa quanto essi siano grandi. Al di fuori di questa superficie utile, è impossibile ottenere un’immagine a fuoco. I quadri fatti con l’ausilio di uno specchio concavo devono pertanto essere piccoli, o devono essere un collage di piccole vedute, come dettagli di mani, vestiti, frammenti di paesaggio e nature morte. Hockney cita il Bacchino malato (ca. 1593) come esempio di questo collage di vedute giustapposte. In effetti il quadro in questione è di piccole dimensioni.

L’altro Bacco di Caravaggio (ca. 1594), ora agli Uffizi, di 95 x 85 cm., non è particolarmente piccolo. Inoltre Caravaggio incomincia ad includere più di una figura, come nei Bari (ca. 1595). Lo sfondo è ora buio e spettacolare: sempre di Caravaggio si tratta, ma l’aspetto ottico è cambiato. David Hockney spiega questo cambiamento con un miglioramento tecnologico, “quello che ci si aspetterebbe da una lente convenzionale [biconvessa, ndr] che può proiettare una veduta più ampia, e quindi più figure in un colpo solo”. Hockney prosegue postulando che qualcuno diede al pittore una nuova lente, forse il suo potente protettore del tempo, il Cardinal Del Monte, portandolo all’idea di usarla al posto dello specchio concavo per ottenere il massimo rendimento dall’effetto della camera oscura. La sperimentazione di Caravaggio con proiezioni ottenute da lenti biconvesse coprì un periodo di cinque anni, durante i quali sarebbe passato da tele di piccole dimensioni “fatte con uno specchio” fino a dipinti di dimensioni medie come il Bacco degli Uffizi, fatte con l’ausilio di una lente. Roberta Lapucci ritiene che il Bacco degli Uffizi dimostri in modo evidente l'uso di lenti e specchi. La studiosa fa notare come il Bacco sia mancino, perché tiene il bicchiere con la mano sinistra. Non essendoci precedenti in tal senso, la Lapucci pensa che l'immagine sia il frutto di una proiezione ottenuta con uno strumento ottico. Se si ribalta l'immagine, sostiene, si ottiene una figura che appare assai più naturale.



In qualche momento tra il 1598 e il 1599, tuttavia, egli deve aver cominciato a sperimentare un nuovo sistema di lenti, con il quale egli fu in grado di realizzare le tre tele con scene della vita di san Matteo (tra le quali la splendida Vocazione di San Matteo) nella cappella Contarelli della chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma, che segnano un importante punto di svolta nel suo stile e stupirono il mondo dell’arte del Seicento quando furono visibili nel 1600.

C’è un ulteriore informazione da segnalare sulla svolta stilistica di Caravaggio agli inizi del nuovo secolo, che richiede di tornare alla Cena di Emmaus, ma nella versione conservata a Milano e dipinta quattro anni più tardi di quella londinese. Essa sembra smentire definitivamente le obiezioni di Stork relative all’illuminazione e confermare l’assunto di Hockney e Falco che il pittore utilizzasse la luce solare.

Lo studio dell’opera effettuato da parte dell'Opificio delle Pietre Dure con l’ausilio dello scanner Multi-NIR (Scanning Multispectral IR reflectography) realizzato dall'Istituto Nazionale di Ottica (INO) del C.N.R di Firenze ha rilevato il disegno sottostante il dipinto conservato alla Pinacoteca di Brera. Dall'indagine sono infatti affiorati i contorni del volto di Cristo, degli apostoli, delle mani, oltre alla presenza delle incisioni tipiche della fase giovanile del Caravaggio e che Hockney attribuisce all’uso di dispositi ottici. Si può quindi concludere che Caravaggio, contrariamente a quanto generalmente si pensava, faceva uso di disegni preparatori.


Inoltre, e ciò è assai importante per la nostra piccola indagine, lo scanner del CNR ha rivelato anche la presenza di un significativo cambiamento nel corso della realizzazione dell’opera. Sul lato sinistro, dietro la figura in piedi, è emersa una finestra da cui si scorge un paesaggio dominato da un albero frondoso. Tale apertura era la fonte di luce naturale che illuminava i personaggi. Nella stesura definitiva, il pittore occultò questi elementi a favore di uno sfondo scuro, adatto alla resa di un'atmosfera più spirituale, illuminata da una luce di taglio, dall’effetto “soprannaturale”, rivelatrice della presenza divina. I risultati del Multi-NIR CNR consentono di affermare che la Cena di Emmaus rappresenta lo spartiacque stilistico nella carriera pittorica del maestro lombardo. E gettano una nuova luce (è proprio il caso di dirlo) sulla tecnica pittorica adottata dal Caravaggio negli ultimi suoi anni di vita.

giovedì 17 giugno 2010

Pittura e dispositivi ottici: il Rinascimento

La maggior parte degli storici dell’arte ritiene che molti pittori europei a partire dal Rinascimento fecero uso di elaborati sistemi di prospettiva matematica per realizzare i loro capolavori. Negli ultimi anni il noto artista inglese David Hockney e il fisico ottico dell’Università dell’Arizona Charles Falco hanno tuttavia ipotizzato che molti tra i più capaci artisti abbiano fatto uso, a partire dalle Fiandre nel secondo decennio del Quattrocento, di diversi apparecchi ottici, che vanno dagli specchi concavi, alle lenti, fino alle prime forme di camera oscura e di camera lucida. Essi suggeriscono che pittori da Van Eyck fino a Caravaggio, Lotto, Velazquez, Vermeer, Ingres, ecc., abbiano per secoli utilizzato dei precursori delle macchine fotografiche prima dell’invenzione dei fissanti chimici nel 1839. Fu solo dopo la diffusione di questi fissanti che i pittori, improvvisamente stanchi del realismo ottico, intrapresero quella critica alla fotografia implicita nell’impressionismo, nell’espressionismo e nell’arte astratta. Queste argomentazioni, avanzate in serie pubblicazioni scientifiche, sono oggetto di controversie e, se si rivelassero veritiere, avrebbero importanti conseguenze nella nostra concezione della storia dell’arte. Il grande pubblico ne è venuto a conoscenza nell’autunno del 2001, quando Hockney ha esposto le sue tesi nel libro Secret Knowledge: Rediscovering the Lost Techniques of the Old Masters.


Hockney e Falco considerano la “pietra di Rosetta” della loro teoria il quadro Marito e moglie di Lorenzo Lotto, del 1543. Essi fanno notare come il motivo del tappeto orientale sul tavolo vada fuori fuoco al centro, un effetto impossibile da vedere nella vita reale, ma inevitabile se una lente con una limitata profondità di campo proietta il soggetto su una superficie piana. Inoltre la parte posteriore dell’immagine torna improvvisamente nitida, grazie a una messa a fuoco della lente, che a sua volta porta a una leggera distorsione tra due diversi punti di fuga, non il singolo che ci si aspetterebbe se l’immagine fosse stata realizzata con il semplice uso della prospettiva geometrica.

Da dove proviene questo “aspetto ottico”? Uno sguardo ai ritratti realizzati a partire dal XIII secolo dai pittori europei mostrerebbe come qualcosa di nuovo accade intorno ai primi decenni del Quattrocento a Bruges.

Il cardinale Niccolò Albergati visitò la città fiamminga una sola volta, per tre giorni pieni di impegni nel 1431, durante i quali van Eyck organizzò una rapida sessione di disegno. Il risultato fu un disegno preparatorio in cui si notano le pupille a punta di spillo e le ombre scure, che suggeriscono una brillante luce esterna richiesta dall’uso di una proiezione ottica. Il disegno era circa la metà delle dimensioni reali; il quadro creato l’anno successivo era grande circa il 40% in più del disegno e, se riportato alle stesse dimensioni, vi si sovrappone perfettamente, come può essere ottenuto, secondo Hockney, solo con l’utilizzo di un qualche dispositivo ottico.

A Bruges, intorno al 1430, cent’anni prima di Lotto, è improbabile che esistessero le lenti adatte, ma, sostiene Falco, lo stesso risultato può essere ottenuto da uno specchio concavo, costruito con la stessa tecnologia di quello convesso che compare nel Ritratto di Giovanni Arnolfini e della moglie, che van Eyck realizzò nel 1434, adattato a fungere da epidiascopio (o episcopio), un primitivo “proiettore opaco”. Grazie a questo dispositivo van Eyck poté copiare e allargare il disegno preparatorio e poi realizzare il dipinto, come è mostrato in figura.

L’ottica di uno specchio concavo può essere facilmente spiegata osservando come i raggi di luce paralleli provenienti da un oggetto distante sono riflessi e concentrati nel fuoco F. La distanza tra la superficie dello specchio e il punto F è la distanza focale f.

Gli specchi concavi più semplici possono essere considerati come sezioni di una sfera, con centro C. Dall’ottica elementare sappiamo che il raggio della sfera, r, è due volte la lunghezza focale dello specchio, vale a dire r = 2f. Le leggi che regolano la riflessione valgono ovviamente anche nel caso degli specchi concavi. Tuttavia le perpendicolari ai diversi punti degli specchi sono disposte radialmente e non parallelamente come negli specchi piani. Questo significa che raggi paralleli che colpiscono lo specchio in due punti diversi avranno un angolo di riflessione diverso. Ciò ha come conseguenza una deformazione delle immagini riflesse dallo specchio. Tale deformazione dipenderà dalla posizione relativa dell'oggetto rispetto allo specchio. Basandosi sulle dimensioni dei soggetti rappresentati e sulle loro distanze dall’artista, Hockney e Falco hanno valutato che la distanza focale dello specchio concavo usato nella creazione del ritratto degli Arnolfini potrebbe essere stata f = 54 cm. Essi sostengono che altri dipinti furono realizzati con specchi con distanza focali simili e indicano il valore f = 59 cm come un valore ragionevole e rappresentativo.

Hockney avanza anche la suggestiva ipotesi che gli artisti del primo Rinascimento potrebbero aver tenuta per sé la “conoscenza segreta” riguardo agli specchi perché si sarebbe trattato di un sapere circoscritto a un gruppo limitato, oppure perchè avrebbe potuto suscitare la diffidenza o l’aperta ostilità della chiesa.

Alcune obiezioni sono state subito avanzate dagli storici dell’arte, che hanno persino insinuato spiegazioni perfide sul successo editoriale del libro. James Elkins, professore all’Art Institute di Chicago, piccato per le accuse di ignoranza scientifica che Hockney ha rivolto alla categoria, è giunto a dire che “c’è un grande desiderio da parte dei lettori, dei giornalisti, della gente che visita i musei, di capire i Vecchi Maestri una volta per tutte. I trucchetti ottici elencati nel libro di Hockney promettono di renderlo realizzabile”.

Secondo David Stork, Chief Scientist alla Ricoh e professore consulente associato sia di Ingegneria Elettrica che di Computer Science alla Stanford University, è possibile spiegare la tecnica di ingrandimento utilizzata da van Eyck per il suo ritratto del cardinale Albergati senza invocare l’uso di un episcopio. Il pittore potrebbe aver semplicemente fatto uso di una griglia a maglie quadrate, come si usa nei corsi di disegno, correggendo poi le eventuali imperfezioni, ecco perché il disegno e il dipinto “si sovrappongono perfettamente”. In alternativa, van Eyck potrebbe aver usato un pantografo, che usava anche Leonardo. I pantografi si basano sul principio del parallelogramma nella geometria euclidea, conosciuto da più di ventitre secoli. L’artista muove una punta secca posta su una parte dello strumento lungo i contorni dell’originale e una matita posta sull’altra parte riproduce l’immagine su un foglio di carta o sulla tela, ad una scala che può essere scelta opportunamente.


Quanto ai difetti nel Marito e moglie di Lorenzo Lotto, Christopher Tyler, Direttore Associato dello Smith-Kettlewell Eye Research Institute in San Francisco, gli ha attribuiti scherzosamente allo “sguardo fisso” del pittore, cioè a una sua costruzione intuitiva. In realtà, egli sostiene, l’uso di due o più punti di fuga differenti è comune in moltissime opere di pittori tra il XV e il XVIII secolo, tra i quali Raffaello, Bellini, Holbein, Canaletto, delle quali fornisce le immagini.

Stork obietta poi che è possibile calcolare la distanza focale di un ipotetico dispositivo ottico per ogni quadro che presenta un numero sufficiente di oggetti posti a varie distanze, ma ciò non implica che tale dispositivo sia stato effettivamente utilizzato. Inoltre si chiede se esiste documentazione storica dell’esistenza di specchi e lenti appropriati durante il primo Rinascimento. Ora, tali specchi potevano essere costruiti da una sfera di vetro caldo nella quale, attraverso un tubo, sarebbe stata soffiata una mistura di stagno, antimonio e resina o catrame. Una volta raffreddato, il vetro sarebbe poi stato tagliato nelle dimensioni adatte per dare immagini sufficientemente ben definite. Egli ha calcolato la distanza focale dello specchio convesso rappresentato nel ritratto dei coniugi Arnolfini, ottenendo un risultato di f = 12 cm, assai diverso dal valore f = 54 cm per lo specchio concavo ipoteticamente utilizzato da van Eyck secondo Hockney. Ciò significa che se lo specchio convesso rappresentato può essere stato ottenuto da una sfera di vetro soffiato del diametro 4f = 48 cm, più o meno grande come un pallone da spiaggia, lo specchio concavo ipotizzato da Hockney e Falco dovrebbe essere stato tagliato da una sfera di vetro di diametro 4f = 220 cm, maggiore della più grande realizzata ai nostri tempi, e chiaramente impossibile nel XV secolo. Lo studio di specchi sferici o di sfere di vetro rappresentati nei quadri dei pittori dell’epoca considerata non ha poi fornito valori paragonabili a quelli dell’ipotesi di Hockney e Falco. C’è poi una considerazione riguardo alla luce necessaria affinché questi dispositivi potessero essere di qualche utilità pratica, che non poteva essere ottenuta se non riempiendo i locali di migliaia di candele.

L’ipotesi di specchi concavi ottenuti da bronzo o altro metallo lucidato (del tipo degli specchi ustori di Archimede), prosegue Stork, è improponibile per il semplice fatto che la loro qualità non avrebbe mai potuto consentire la proiezione sulla tela di immagini sufficientemente nitide. In ogni caso, conclude, lucidare uno specchio metallico delle dimensioni di quello rappresentato nel ritratto degli Arnolfini sarebbe stata un’impresa incredibile, circa duecentocinquanta anni prima dell’invenzione dei telescopi a riflessione di James Gregory nel 1663.

Le conclusioni di Stork sono quindi rivolte a una stroncatura radicale delle tesi di Hockney e Falco. Le fonti storiche del XV secolo, egli sostiene, sono insolitamente silenziose sull’uso di specchi concavi nella pittura, mentre abbondano i trattati sulla prospettiva. I quadri dell’epoca considerata riproducono una grande messe di strumenti ottici di ogni tipo (astrolabi, bussole, occhiali, ecc.), ma ben pochi specchi sferici o parabolici. Quanto alla teoria della cospirazione per mantenere segreto l’uso di questi strumenti, perché nessuna fonte dell’epoca ne parla, anche in termini vaghi? In un’epoca in cui ogni sapere professionale poteva essere sospettato di eresia, in cui abbondavano pubblicazioni su ogni tipo di sette esoteriche, perché questa “congiura degli specchi” ha dovuto aspettare il ventunesimo secolo per essere scoperta?

Una critica così articolata non poteva essere ignorata da Hockney e Falco. Essi hanno sintetizzato le principali obiezioni mosse al loro lavoro rispondendo che :
1) possediamo ampia documentazione che già nel XIV secolo esistevano dispositivi ottici, sia a riflessione che a rifrazione, adatti allo scopo, a prezzi assolutamente accessibili. I 40 ritratti di domenicani realizzati nel 1352 da Tommaso da Modena nella Sala capitolare del Convento di San Nicolò a Treviso, in particolare Ugo di Provenza e Il Cardinale di Rouen mostrano, rispettivamente, occhiali e una lente d’ingrandimento, mentre Isnardo da Vicenza e il San Gerolamo affrescato successivamente su un pilastro dell'attigua chiesa rappresentano entrambi specchi concavi.
2) la questione del talento è una fallacia logica, inadatta a smentire il fatto che, indipendentemente dalla loro capacità, i pittori avessero a disposizioni lenti o specchi e ne facessero uso;
3) gli artisti non facevano uso di candele, ma della luce solare.

Quanto alle critiche “tecnologiche” di Stork, essi ribattono che, secondo lo storico Martin Kemp, il pantografo fu inventato da Christopher Scheiner nel 1603, più di centocinquanta anni dopo che van Eyck dipinse il ritratto del cardinale Albergati, e 84 anni dopo la morte di Leonardo.

Secondo Hockney e Falco, che hanno pubblicato le loro considerazioni in un libro ottimamente corredato di illustrazioni, i dispositivi ottici e i loro effetti sulla tela influenzarono l’arte europea dal 1430 a circa il 1850, fino all’arrivo della fotografia, che sembrò togliere alla pittura lo scopo di ritrarre il reale così come appare ai nostri occhi (a quelli del pittore). Di come la storia dell’uso di dispositivi ottici nella pittura continui dopo il Rinascimento mi occuperò in un prossimo articolo, nel quale affronterò l’affascinante enigma della camera oscura del Caravaggio.

venerdì 11 giugno 2010

Einstein e Picasso, con qualche dubbio

Il primo protagonista di questa storia si chiama Henri Poincaré (1854-1912), grandissimo matematico, fisico teorico precursore della relatività ristretta e filosofo convenzionalista. In La scienza e l'ipotesi (1902), libro più di epistemologia che di fisica, Poincaré espresse l’idea che la scienza non ci può rivelare la vera essenza della realtà. La sua valenza conoscitiva è relazionale: non possiamo conoscere gli oggetti, ma solo le loro relazioni. Lo scienziato crea soltanto il linguaggio con cui enunciare un fatto e le sue relazioni con altri fatti; il fatto scientifico cioè, non è altro che il fatto bruto tradotto in un linguaggio convenzionale e quindi più comodo. In altre parti del testo lo scienziato francese critica i concetti di spazio e tempo assoluti, affermando che essi non sono necessari alla meccanica. Inoltre, sostiene, “La nostra geometria euclidea non è, essa stessa, che una sorta di convenzione linguistica; noi potremmo enunciare i fatti della meccanica in relazione ad uno spazio non euclideo, ma questo sarebbe un riferimento meno comodo, ma comunque legittimo come il nostro spazio ordinario”. Poincarè chiamò “Principio del moto relativo” l’impossibilità fisica di osservare il moto assoluto. Due anni dopo lo avrebbe chiamato “Principio di Relatività”.

In Scienza e metodo (1906), un’eterogenea raccolta di saggi su questioni di metodologia scientifica, Poincaré espose le proprie idee sulla creatività e sui processi mentali che generano intuizioni creative. Poincaré considerava la creatività come la capacità di unire elementi preesistenti in combinazioni nuove che siano utili, sostenendo che il criterio intuitivo per riconoscere l'utilità della combinazione nuova è la bellezza, intesa non solamente in senso estetico, ma legata all'eleganza così come la intendono i matematici: armonia, economia, rispondenza allo scopo. La definizione di Poincaré era riferita alle scienze, ma abbracciava anche le arti e la tecnologia.

Il secondo protagonista si chiama Arthur I. Miller e, ad onta del suo nome, non fa il commediografo, ma lo storico della scienza e il divulgatore scientifico. Sì è laureato in fisica al City College di New York e ha ottenuto il PhD al MIT, iniziando la carriera come fisico delle particelle. Poi ha studiato storia e filosofia della scienza ad Harvard. Dal 1991 al 2005 è stato professore di Storia della Filosofia della Scienza all’University College di Londra. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni. In Italia sono stati tradotti L'impero delle stelle. Amicizia, ossessioni e tradimento alla ricerca dei buchi neri, Codice, 2006, cronaca documentata della scoperta teorica di quegli oggetti che si sarebbero poi chiamati buchi neri e spietata indagine sulle lotte di potere e le invidie presenti ai massimi livelli della ricerca scientifica, e L'equazione dell'anima. L'ossessione per un numero nella vita di due geni, Rizzoli, 2009, curioso saggio sul poco conosciuto rapporto terapeutico tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung, che si manifestò nel tentativo di elaborare un linguaggio comune per fisica e psicologia e di trovare un ponte tra materia e spirito: tentativo miseramente sfociato in un’esoterica esaltazione per il numero “magico" 137.

Il primo legame tra Poincaré e Miller è l’affermazione di quest’ultimo che nel 1976 la lettura delle riflessioni di Poincaré sulla creatività, contenute in lettere e manoscritti allora inediti, gli aprì un nuovo campo d’interesse: il rapporto tra la scienza e l’immagine, soprattutto dopo che la relatività e la meccanica quantistica hanno rotto quella continuità tra visualizzabilità e visualizzazione che era fuori discussione nella fisica newtoniana. Miller si è allora interessato a come sono costruite, conservate nella mente e recuperate dal pensiero le immagini visuali, avvicinandosi così alle scienze cognitive, che gli avrebbero fornito la possibilità di strutturare le sue idee.

Gli studi di Miller sul simbolismo visuale in fisica lo hanno condotto verso l’arte. Il filo conduttore del suo Insights of Genius: Imagery and Creativity in Science and Art (1996) è che la creatività visuale è fondamentale in entrambi i campi. Miller si chiede in questo libro come mai gli scienziati sono così attratti dalle immagini visuali e come mai la visione in tutte le sue forme riveste un ruolo così fondamentale nelle grandi conquiste scientifiche. Dai disegni di Galileo ai diagrammi di Feynman e, ancora oltre, alle moderne tecniche di rappresentazione virtuale, è praticamente impossibile immaginare la scienza senza le immagini. In questa accezione, gli scienziati sono come gli artisti: entrambi cercano una rappresentazione visuale del mondo. Così, Miller esplora le relazioni tra la fisica moderna e l’arte moderna, con uno studio di grande respiro che coinvolge la filosofia della mente e del linguaggio, le scienze cognitive, la neurofisiologia, in cerca delle origini e del significato del simbolismo visuale. Miller afferma di credere che “nel momento della visione creativa, si dissolvono i confini tra le discipline e sia gli artisti sia gli scienziati cercano nuovi modelli di estetica” (I believe that at the moment of creative insight, boundaries dissolve between disciplines and both artists and scientists search for new modes of aesthetics).

Il secondo legame tra Miller e Poincaré fa entrare in scena altri due personaggi, il terzo e il quarto, che sono tanto conosciuti da non dovere essere presentati. Nel suo libro Einstein, Picasso: Space, Time and the Beauty That Causes Havoc, Perseus Books, 2001, che gli valse anche una nomination per il premio Pulitzer, Miller sostiene che Poincaré è il legame tra la relatività e il cubismo. Sia Albert Einstein che Pablo Picasso, egli sostiene, furono influenzati dall’approccio non-euclideo alla geometria e dalle sue speculazioni sulla simultaneità. Einstein lo sarebbe stato direttamente, leggendo la traduzione tedesca del testo La scienza e l’ipotesi e discutendone con gli amici di Berna, Picasso indirettamente, attraverso la sua cerchia d’amici e conoscenti. La tesi di Miller è che Einstein e Picasso stavano entrambi lavorando allo stesso problema, la natura della simultaneità (temporale per Einstein e spaziale per Picasso), e che per entrambi non esistevano sistemi di riferimento preferenziali per osservare i fenomeni.

Molti storici dell’arte hanno ipotizzato che in qualche modo la relatività abbia influenzato il cubismo, ma nessuno di essi ha mai ritenuto che tra di essi esistesse un legame diretto. In effetti si è sempre pensato che gli ispiratori di Picasso fossero stati Cezanne e l’arte primitiva africana. Miller invece considera il cubismo come un “programma di ricerca” con il quale Picasso, allo stesso modo di Einstein, creò una nuova estetica, la riduzione delle forme a raffigurazioni geometriche. Ciò implicava la rappresentazione simultanea, sulla stessa tela, di molti punti d’osservazione differenti. Questa idea ha spinto lo studioso americano a studiare maggiormente l’argomento e a sostenere la tesi che, sebbene Einstein e Picasso fossero sconosciuti l’uno all’altro, il movimento d’avanguardia nella prima decade del Novecento li incoraggiò a mettere in discussione nello stesso momento la tradizionale concezione dello spazio e del tempo. Entrambi, tra il 1905 e il 1906, scoprirono il concetto di relatività.


Picasso, da non molto tempo a Parigi, in quel periodo conosceva a stento il francese e non potrebbe aver letto le opere di Poincaré, tuttavia Miller ha scoperto che qualcuno nella sua cerchia di amici studiava matematica avanzata per diletto. Questo qualcuno, Maurice Princet, potrebbe aver illustrato a Picasso le riflessioni di Poincaré proprio mentre il pittore si accingeva a dipingere Les Demoiselles d’Avignon (1907). Scrive Miller. “La mia ipotesi è che proprio in quel momento Picasso comprese l’importanza di quanto Princet andava dicendo sulle geometrie non euclidee”. L’influsso di Princet sulla nascita del cubismo è attestata da varie testimonianze. Il pittore fauvista Maurice Vlaminck scrisse "Ho assistito alla nascita del cubismo, alla sua crescita, al suo declino. Picasso fu l’ostetrico, Guillaume Apollinaire la levatrice, Princet il padrino." Jean Metzinger, che aderì al cubismo nel 1908, scrisse nelle sue memorie : “Maurice Princet si univa spesso a noi. Sebbene fosse assai giovane, grazie alla sua conoscenza della matematica, aveva un posto importante in una compagnia assicurativa. Ma, al di là della sua professione, era in quanto artista che concepiva la matematica, in quanto esteta che invocava il continuum n-dimensionale. Gli piaceva coinvolgere gli artisti nelle nuove visioni dello spazio che gli erano state aperte da Schlegel e alcuni altri. Ci riuscì bene”.

Sembra anche che Princet abbia fatto conoscere al pittore spagnolo il Traité élémentaire de géométrie à quatre dimensions (1902) di Esprit Jouffret, in cui venivano descritti gli ipercubi e altri poliedri complessi a quattro dimensioni ed era illustrato come riprodurre su un piano bidimensionale oggetti a più di tre dimensioni. I disegni preparatori delle Demoiselles mostrerebbero, secondo Miller, l’influenza di Jouffret sul lavoro dell’artista.

Quanto a Einstein, Miller ravvisa nella vita dello scienziato di Ulm numerosi paralleli con quella di Picasso: “quando produssero le loro sorprendenti innovazioni, entrambi erano sulla ventina, sconosciuti, determinati, poveri e disposti a cacciarsi nei guai”. Einstein e Picasso, ciascuno nel proprio campo, emersero quando incominciava ad essere chiaro che i modi classici, intuitivi, di considerare e rappresentare lo spazio e il tempo erano oramai inadeguati. E ciascuno di essi trovò soluzioni innovative che avrebbero rivoluzionato il loro campo d’azione.

Il libro di Arthur I. Miller ha ottenuto un grande successo di vendite e ottime recensioni: William R. Everdell, sul The New York Times, ha scritto che si tratta di “un libro eccitante”, che attraverso il talento narrativo di Miller “assume la sua struttura naturale di doppia detective story”, “un thriller intellettuale”; secondo il New Scientist,Einstein, Picasso presenta nuovi punti di vista nei processi creativi comuni ad uno scienziato rivoluzionario e ad un artista radicale”; Nature ha parlato di “narrativa vivace e avvincente”; Stephen G. Brush, su Physics Today, lo a definito “Un libro brillante... che offre la migliore spiegazione che ho visto sulle scoperte indipendenti del cubismo e della relatività come parti di una trasformazione culturale più ampia”. Il nostro Pietro Greco (Jcom 3 (2), June 2004) pensa che “La doppia tesi di Arthur I. Miller va presa in seria considerazione. Perché l’uomo è un rispettato storico della scienza in forze allo University College di Londra. Perché è, forse, lo storico al mondo che ha prestato maggiore attenzione al ruolo che hanno avuto l’intuizione, le metafore, l’estetica, la visualizzazione (Anschauung) e la visualizzabilità (Anschaulichkeit) nella fisica del primo Novecento. E, soprattutto, perché la sua doppia tesi è ben documentata”.

Il vostro modesto recensore non condivide l’entusiasmo dei critici. Innanzitutto non mi convince l’accostamento, indubbiamente accattivante, tra i due grandi personaggi, che, alla fine dei conti, sono stati scelti perché il loro nome è evocativo, ma che ebbero in comune solamente il fatto di vivere in anni di grande fermento culturale e di grandi innovazioni.

Il ruolo di Einstein in questa storia è poco chiaro e il suo contributo alla trama sembra ridotto ad alcuni aspetti della sua biografia simili a quelli della biografia di Picasso. Sicuramente i lavori di Poincaré erano conosciuti da Einstein quando pubblicò il suo celebre articolo sugli Annalen der Physik del 30 giugno 1905, tuttavia egli non ne citò alcuno. Solo nel 1921 Einstein citò Poincaré nel testo di una conferenza a proposito di geometrie non euclidee, ma non in relazione alla relatività speciale. Da parte sua, Poincaré non citò mai il lavoro di Einstein sulla relatività ristretta. Sembra che il legame tra i due non sia stato più stretto di quanto lo fossero i legami tra tutti i fisici che nello stesso momento si occupavano dei concetti di spazio e di tempo e di geometrie non euclidee.

Picasso avrebbe conosciuto le geometrie n–dimensionali dalle parole di un amico e dal testo di Jouffret: può darsi che le illustrazioni del volume possano avere ispirato la sua svolta stilistica, ma, per parlare di influsso diretto delle nuove scoperte della fisica sull’opera del maestro spagnolo, mi sarei aspettato qualcosa di più. È vero che i principi fondamentali della teoria cubista, così come vennero formulati da Picasso, Braque e dallo scrittore Apollinaire, sembrano mutuare dalla scienza l’analisi e la scomposizione dell’oggetto rappresentato nelle sue forme geometriche costitutive, viste da sistemi di riferimento spaziale differenti, ma parlare di “programma di ricerca” presuppone relazioni che Miller ha provato solo parzialmente. La testimonianza di Louis Vauxcelles, il critico d’arte che inventò le parole fauvismo e cubismo, sembra inoltre minimizzare ironicamente il legame diretto tra fisica e arte sostenuto da Miller: “Un giorno il signor Princet incontrò il signor Max Jacob e gli confidò un paio delle sue scoperte relative alla quarta dimensione. Il signor Jacob ne informò l’ingegnoso Picasso, e il signor Picasso vi vide la possibilità di nuovi schemi ornamentali. Il signor Picasso espose le sue intenzioni al signor Apollinaire, il quale si affrettò a scriverle in formulari e a codificarle. La cosa si estese e si propagò. Era nato il Cubismo, figlio del signor Princet”.

Qualcosa di più senz’altro Arthur I. Miller ci dirà il prossimo 13 dicembre 2010 dalle 14 alle 16 nel Dipartimento di Fisica della Sapienza di Roma, quando terrà una conferenza dal titolo Einstein, Picasso: Abstract Art and Abstract Science.

domenica 6 giugno 2010

La scienza in famiglia (2): farmaci narcotici di metà Ottocento

In un precedente articolo ho presentato il volume La scienza in famiglia – Nozioni scientifiche sugli oggetti comuni della vita, del medico, insegnante di scienze e divulgatore scientifico francese Louis Figuier (1819-1894), pubblicato in Francia nel 1862 e in Italia nel 1876 da Treves, con la traduzione e le note di Carlo Anfosso. Opera divulgativa di merceologia, che illustrava i principi scientifici e tecnologici alla base di oggetti, sostanze, apparecchiature e tecniche di uso quotidiano nelle case, illustrata da 325 incisioni, La Scienza in famiglia ebbe un buon successo anche da noi, testimoniando che l’interesse per la scienza era allora assai diffuso nelle classi colte e sufficientemente benestanti da potersi comprare dei libri. I suoi destinatari erano persone da educare alle scienze positive (giovani o i loro famigliari), utilizzando un linguaggio formale ma semplice, non ammiccante, con ottime illustrazioni realizzate a china, e un formato grande in modo da consentire una lettura agevole, magari di un adulto accanto a un bambino.

Torno sull’argomento, su gentile richiesta, per parlare dei contenuti del capitolo dodicesimo, dedicato ai Medicamenti, del quale riporto quasi integralmente la parte relativa ai narcotici, corredata da alcune mie note esplicative. Qualora i lettori dimostrassero interesse, lo riprenderò in eventuali articoli successivi.

XII.


I MEDICAMENTI

Oggidì che la medicina assumendo i caratteri di una vera scienza positiva, si è spogliata di quanto aveva di misterioso nei tempi passati, che si sono posti in disparte i nomi stravaganti, la lingua latina, le formole multiple; oggi insomma che la medicina non teme più di palesare i suoi segreti, non sarà inutile l’esporre in brevi parole la storia chimica dei rimedi più comuni adoperati a combattere le malattie.

L’uomo collocato nella natura in mezzo agli agenti cosmici che ne attentano la salute, sprovveduto di riparo contro il freddo, l'umidità, le arsure, sotto l'azione delle passioni e delle esigenze della vita, si trova continuamente soggetto a malattie.

Chi ritorna colla fantasia all’uomo primitivo, chi cerca di ricomporre quadri snebbiati da migliaia di anni, non può a meno di domandarsi come la creatura umana abbia potuto resistere e reagire contro le forze naturali, come abbia potuto a poco a poco dominarle a suo vantaggio.

Nulla v'ha cosi essenzialmente buono in natura che non possa in certe circostanze riuscire causa di malattia; cibi, vestimento, aria, acqua calda e fredda, tutto può per condizioni intrinseche od estrinseche riuscire causa morbosa, cioè alterare il regolare funzionare degli organi. Allorché una delle funzioni del nostro organismo non si compie perfettamente in regola, allora si ha. la malattia, e secondo l'importanza sua, maggiore o minore ne è la gravità.

L' igiene è lo studio delle regole per conservare la sanità; si fonda quindi tutta sulla conoscenza delle vie per cui l'organismo passa dallo stato di sanità a quello di malattia.

Noi passeremo rapidamente in rivista le sostanze che sono usate il più spesso e il più generalmente come rimedii nel corso delle malattie. Faremo conoscere l'origine ed il carattere di queste sostanze. Potendo ognuno avere bisogno di medicamenti, giova sapere qual è la natura, quali sono le proprietà generali della sostanza medicinale che si prende.

Sarà necessario di stabilire una divisione per descrivere una dopo l’altra e con metodo un sì gran numero di materie diverse; noi classificheremo i medicamenti in dodici gruppi:

1. I narcotici.
2. I tetanici.
3. I sedativi.
4. I purganti.
5. Gli emetici.
6. I diuretici.
7. I sudorifici.
8. Gli emollienti.
9. Gli stimolanti.
10. Gli astringenti.
11. I tonici.
12. I modificatori.

RIMEDII NARCOTICI

II papavero, la belladonna, il giusquiamo, la datura, la cicuta, l'elleboro, l'aconito, sono piante velenose, che, adoperate in piccole dosi, danno alla medicina potenti rimedii (1). Bisogna notare infatti che i medicamenti più attivi non son altro che veleni, i quali, adoperati in piccola dose, esercitano una azione curativa. I rimedi narcotici agiscono sul sistema nervoso, e principalmente sul cervello, diminuendo o alterando la sua attività od anche interrompendo momentaneamente le sue funzioni.

OPPIO

Dicesì oppio il sugo inspessito dei frutti o capsule del papavero sonnifero (Papaver somniferum) appartenente alla famiglia delle Papaveracee.

L'oppio proviene sopratutto dall'Oriente, dalla Persia e dall'India. Ecco la maniera con cui lo si raccoglie nell'Asia Minore. Pochi giorni dopo che il fiore del papavero è caduto, degli operai uomini e donne, si recano nei campi e fendono orizzontalmente la capsula dei papaveri, avendo cura che il taglio non penetri all'interno. Ne esce subito un liquore bianco che scola in forma di lacrime dagli orli della sezione e presenta l’aspetto che si vede nella figura 298. Solamente l'indomani, col mezzo di larghi coltelli, poco taglienti, si va a raccogliere il sugo inspessito su ogni testa di papavero; esso si presenta allora sotto forma di una gelatina appiccaticcia e granulosa, che si depone in vasettini di terra e s'impasta con saliva. Finalmente viene avviluppato nei frutti del rumex (2), o nelle foglie del papavero; e quello è l'oppio.

L'odore dell'oppio è forte e vìroso, il suo sapore è amaro, nauseante, disaggradevole. Sottomesso all’analisi chimica, l'oppio ha fornito diversi alcaloidi cristallizzabili, di cui il principale e più attivo è la morfina, sostanza bianca, solida, amarissima, che è molto adoperata allo stato di sale (acetato di morfina) per calmare i dolori nervosi, e per procurare qualche sollievo ai malati che soffrono d'insonnia. La morfina è un veleno dei più violenti per cui non lo si amministra che a dosi minime. Esso rappresenta il più attivo di tutti i principi dell'oppio, di cui ha quasi tutte le virtù. Le proprietà narcotiche, stupefìcanti, dell'oppio furono conosciute dalla più remota antichità.

Amministrato a piccola dose, l'oppio diminuisce la sensibilità producendo uno stato di calma profonda, che porta al sonno. A dose più elevata, determina una specie di ebrietà che può produrre la morte. I Musulmani ed i Cinesi assorbono di questo narcotico quantità successivamente crescenti; a furia di abituarsi a questa esaltazione ed ebbrezza, che per loro è irresistibile incanto, finiscono per cadere in uno stato di completo abbrutimento fisico e morale. (…) Ma allontaniamoci da questo triste quadro, dell'uomo che per soddisfare ad un piacere sensuale si uccide con quella sostanza che dovrebbe solamente adoperare a combattere le malattie.

Sydenham (3) disse che l'oppio è un dono di Dio, e sosteneva che senza questo rimedio non sarebbe possibile alcuna medicina. “Fra tutti i rimedi che Dio onnipotente donò all'uomo, dice l'illustre medico inglese, non ve ne ha alcuno più universale e più efficace dell’oppio. Esso è cosi necessario alla medicina che questa non potrebbe assolutamente farne a meno, ed un medico che sappia adoperarlo opportunamente otterrà sorprendenti risultati”. L'oppio è infatti un agente eroico, come si dice in medicina. Combatte con successo tutto le infiammazioni. I suoi effetti sono veramente meravigliosi nelle nevralgie e nelle affezioni reumatiche; esso rende i più grandi servigi nella cura delle malattie infiammatorie del petto; calma l'irritazione e la tosse nelle.infiammazioni delle vie respiratorie; finalmente è un prezioso calmante in tutte le malattie acute, ed un agente che assopisce negli ultimi periodi delle malattie di cui non si trovò ancora il rimedio, come la tisi polmonare ed il cancro.

Fra i medicamenti a base d'oppio più usitati, noi ricorderemo il laudano di Sydenham, ed il laudano di Rousseau che sono due veri vini d'oppio (4), il siroppo diacodio e l'estratto d'oppio.

L'oppio rimase sino a questi ultimi anni un prodotto esotico, l'Oriente solo aveva il privilegio di procurarcelo; ma recentemente si sono fatti ottimi tentativi per raccogliere oppio in Francia (…) L’oppio indigeno è anche più ricco di morfina e per conseguenza più attivo dell’oppio esotico. (…)

Il siroppo diacodio si prepara coll’estratto alcolico delle teste di papavero bianco. È un medicamento molto adoperato come narcotico, più debole del siroppo d’oppio. (…)


La belladonna, il giusquiamo e lo stramonio sono le principali specie narcotiche fornite dalla famiglia delle solanacee.

BELLADONNA

La belladonna (Atropa belladona) è un’erba vivace, dal portamento elegante e dalla fisionomia sospetta. “Pianta d’aspetto melanconico” dicono i vecchi libri per definirla. Infatti il fogliame è cupo, lividi i fiori, neri i frutti. Il nome di atropa deriva da Atropos, quella delle tre Parche che teneva le fatali forbici; il nome di belladonna che desta idee più aggradevoli, ricorda l’uso che se ne faceva un tempo (5). L’acqua distillata di belladonna serviva a conservare la freschezza della pelle alle donne d’Italia.

I frutti della belladonna costituiscono un veleno violento tanto più pericoloso, in quanto che la loro rassomiglianza colle ciliegie invita spesso i ragazzi a mangiarne; il loro sapore dolciastro contribuisce ancora ad allontanare l’idea del pericolo.

I casi di avvelenamento accidentale per i frutti della bella donna (sic, Ndr) sono frequentissimi; per rimediarvi bisogna fare vomitare il malato, e poi fargli prendere bevande acidule.

Si amministra la belladonna in medicina pella cura delle nevralgie, dello spasimo, della tosse nervosa, per prevenire la febbre scarlatina, ecc. Un singolarissimo effetto è costantemente prodotto dall'ingestione di belladonna: è una grande dilatazione della pupilla dell'occhio; perciò si ebbe l'idea di valersi di questa singolare proprietà nell'operazione della cateratta. Alcuni istanti prima dell'operazione si applicano sull'occhio dei guancialini inzuppati d'una soluzione d'estratto di belladonna od alcune goccie del sugo fresco di questa pianta. Per l'influenza di questo sugo, la pupilla dell'occhio si apre notevolmente, e riesce più facile al chirurgo di attraversare quest'apertura per giungere al cristallino e ciò costituisce l'operazione della cataratta.

Le foglie, le radici, l'estratto, od il sugo fresco della pianta sono le forme in cui viene adoperata la belladonna in medicina.

GIUSQUIAMO E STRONOMIO (sic, Ndr)

II Giusquiamo (Hyosciarnus niger) è un'erba biennale, che si trova in differenti contrade di Europa. Cresce specialmente fra le rovine ed in vicinanza delle abitazioni. Il suo caule è, come le sue foglie, cotonaceo e vischioso, ed esala un odore ributtante. La sua corolla ha forma d'un imbuto, ed è di colore giallo pallido, venato di color rosso, il frutto è una capsula bilombare, che si apre in forma di scattola, per una specie di piccolo coperchio od opercolo. Il giusquiamo è un veleno energico, come la belladona. Si combattono gli effetti dell'avvelenamento cagionato da questa pianta coi vomitivi e poi colle bevande acidule.

Un medico tedesco racconta, che i frati di San Benedetto soffriron molto per aver mangiato una insalata di radice di giusquiamo raccolta in fallo per radice di cicoria. I frati andarono a dormire dopo il pasto. A mezzanotte uno di essi era completamente pazzo. Fra quelli che poterono discendere al coro all'ora di mattutino, alcuni non potevano aprir gli occhi per leggere, gli altri dicevano facezie fra le preghiere, o credevano di veder correre formiche nei breviari. Al mattino quello che faceva da sarto non poteva infilare il filo nella cruna; vedeva tre aghi.

Il giusquiamo costituisce in medicina una specie di succedaneo della belladonna.

Lo stramonio o pomo spino (Datura stramonium), è la più pericolosa delle solanacee velenose. È una pianta annua, che gli zingari portarono nel Medio Evo dalle regioni più lontane dell'Asia, e che si trova ora nei paesi incolti e presso le abitazioni. Il suo fogliame melanconico, il suo grande e magnifico fiore bianco o violaceo, la sua capsula guarnita di aculei acutissimi, il suo frutto diviso in quattro parti alla base ed in due solamente all'apice, con un gran numero di piccoli semi brunastri, lo fanno riconoscere facilmente. È un veleno, dei più pericolosi.

Benché tutte le parti del datura siano attive, si adoperano più specialmente in medicina le foglie e i semi. Il suo modo, d'agire e le sue proprietà sono analoghe a quelli della belladonna, ma d'un grado anche più energico. Le foglie del datura stramonium arrotolate e disseccate, servono a far sigari per gli asmatici; i vapori narcotici del datura scemano la violenza degli accessi di questa malattia spasmodica.

I semi del datura hanno proprietà, narcotiche fortissime. Or sono alcuni anni, una banda intiera di ladri conosciuti sotto il nome di addormentatori fu giudicata a Parigi. Si riconobbe che la polvere di semi di datura stramonium, mescolata nel tabacco o nel vino, serviva a quei miserabili a compiere i loro furti; potevano spogliare con comodo le loro vittime, grazie all'assopimento in cui venivano immerse da questa polvere.

CICUTA

La cicuta (Conium maculatum), o grande cicuta, è la più Comune delle Ombrellifere velenose. Il suo aspetto è ributtante; il suo fusto è picchiettato di lividure; essa espande un odore fetido che rammenta l'urina di gatto. La sua radice è bianca, in forma di fuso; le sue foglie sono grandi, frastagliatissime, i fiori bianchi e disposti ad ombrelle molto aperte. Il frutto è coperto di piccole asperità o di nocchi arrotonditi.

La cicuta si trova nei luoghi incolti e sassosi. E un veleno violento, per l'uomo, e per molti animali, eccetto l'asino. Per combattere gli accidenti cagionati dall'ingestione della cicuta, occorre prima di tutto provocare il vomito, e quindi amministrare bevande toniche.

La cicuta fu conosciuta nell'antichità più remota. I Greci col succo di questa pianta preparavano la bevanda mortifera dei condannati alla pena capitale. I nostri giovani lettori, sanno che la cicuta fu la ricompensa dei servigi che Socrate e Focione avevano reso alla Grecia.

Presa a piccola dose, la cicuta produce prima delle leggere vertigini, nausee, mali di capo, ecc. A dose più elevata genera assopimento, stupore, delirio, sincope e morte. Si prescrisse la cicuta nella tisi, nei tumori scrofolosi ed in alcune altre malattie. Si adoperò molto contro le malattie nervose, le tossi nervose, la tosse asinina. La polvere delle foglie disseccate è la preparazione di cicuta di cui si fa più spesso uso.

La piccola cicuta, che possiede le stesse proprietà deleterie della grande cicuta, è ancora più pericolosa. Infatti crescendo negli orti, la si può confondere facilmente col prezzemolo, a cui somiglia molto quando non è ancora sviluppata, o non è in fiore. Si distingue in questo caso dai seguenti caratteri: le foglio del prezzemolo son divise due volte, e le foglioline sono larghe, divise in tre lobi dentati; la piccola cicuta ha le foglie divise in tre parti, le sue foglioline sono più numerose, più strette, acute, incise e dentate. Inoltre l'odore del prezzemolo è aggradevole e aromatico, mentre quello della cicuta è nauseabondo e viroso. Se le due piante hanno i fiori, si distingueranno immediatamente, perché i fiori del prezzemolo sono giallastri, quelli della piccola cicuta bianchi. Il caule presenta pure caratteri differenti in queste due piante: quello della piccola cicuta è quasi liscio, rossastro interiormente, e un po' macchiato di rosso carico; quello del prezzemolo è al contrario cannellato e di colore verde.

La piccola cicuta vien detta Aethusa cynapium dai botanici; essa non appartiene allo stesso genere della grande cicuta.

ELLEBORO

L'elleboro e l'aconito appartengono alla famiglia delle Ranunculacee. L'elleboro nero (Elleborus niger) cresce nei luoghi freschi ed ombrosi delle montagne. I giardinieri lo dicono spesso rosa di Natale, dall'epoca in cui fiorisce ordinariamente. Le sue foglie sono divise in sette od otto lobi profondissimi, e i peduncoli florali sostengono due fiori rosei, molto grandi e penzolanti. La sua radice è molto acre ed ardente; applicata sulla pelle, desta infiammazione leggera. .

Preso all'interno, l'elleboro è un purgante energico e di uso pericoloso: a dose alquanto elevata è un vero veleno. Si adoperò l'elleboro contro diverse malattie della pelle. Un tempo era molto vantato contro le malattie mentali.

Del resto l'elleboro degli antichi sembra essere una specie distinta del nostro elleboro nero.

Celebre per l'abbondanza dell'elleboro era l'isola di Anticira (6); là mandavansi i mentecatti a cercare nelle ipotetiche virtù di questa pianta un rimedio che non si è ancora trovato.

Il pastore Melampo, che come tutti i pastori dell'Arcadia, era un dotto, un botanico, un filosofo, ecc., guarì con quest'erba dalla momentanea pazzia le figlie di Preto (7).

ACONITO

L'aconito napello (Aconitum napellus) è coltivato nei giardini pel fogliame elegante ed i fiori azzurri in forma di casco: Questa bella pianta, delizia dei viaggiatori nelle montagne del Giura e della Svizzera, produsse spesso terribili accidenti, essendo estremamente velenosa.

Tuttavia, applicato con discernimento, l’aconito fu un medicinale utilissimo. Si adopera contro le nevralgie, le paralisi, i reumatismi, la tosse convulsiva, nelle malattie degli occhi, nell’assorbimento purulente, ecc.


NOTE:

1) Si noti come si tratta di rimedi esclusivamente erboristici. L’uso dell’etere dietilico come anestetico per gli interventi chirurgici era stato introdotto una ventina d’anni prima della redazione francese della Scienza in famiglia, ma al Figuier interessava presentare i rimedi di uso domestico.

2) Il lapazio, o rumex, (“lancia”, per la caratteristica forma appuntita delle sue foglie), è una pianta erbacea che si trova comunemente lungo le strade, nei luoghi incolti e nei prati umidi, talvolta anche come infestante nei terreni coltivati. Il suo frutto è un achenio di forma trigonale rivestito dai sepali interni.

3) Thomas Sydenham (1624 –1689) è considerato uno dei padri della medicina inglese. Lo portarono alla notorietà le sue attività per il trattamento del vaiolo, l'uso del laudano, prima forma di tintura di oppio e per l'appoggio dato al trattamento della malaria tramite i principi della corteccia dell'albero della china.

4) Il laudano si ottiene facendo macerare l'oppio in vino o in una soluzione alcolica per alcuni giorni in presenza di aromatizzanti, quali per esempio zafferano, cannella e chiodi di garofano, che permettono di oscurare il cattivo sapore dell'oppio. Insomma è un vin brûlé un po’ particolare.

5) Le dame del Rinascimento usavano questa pianta per dare risalto e lucentezza agli occhi mediante le capacità dilatative della pupilla date dall’atropina contenuta.

6) Si tratta di una località turca dove in epoca classica si produceva l’elleboro. Ad essa è associato il nome di Macaone, figlio di Asclepio ed Epione. Celebre medico, imparò le sue arti guaritrici dal padre e dal maestro Chirone.

7) Melampo è una figura della mitologia greca che capiva il linguaggio degli animali e possedeva virtù profetiche. Guarì dalla pazzia le figlie di Preto, re di Tirinto, e sposò una di loro.