giovedì 30 luglio 2009

Curiosità tassonomiche



Che si possa affrontare la tassonomia degli esseri viventi con un approccio ricreativo non è certo un’idea comune. Eppure i nomi di generi e specie, il cui scopo principale è quello di chiarezza e univocità nella identificazione e nella comunicazione, costituiscono in molti casi motivo di curiosità, per i motivi più svariati.

Alcuni nomi sono degni di nota per ciò che li ha ispirati (ad esempio uno pterosauro, i cui resti sono stati trovati nella foresta brasiliana, è stato chiamato Arthurdactylus conandoylensis, in onore del racconto "Il mondo perduto" di Arthur Conan Doyle, in cui uno pterosauro vivente viene trovato in una giungla e portato a Londra). Altri nomi sono derivati dallo spirito scherzoso di chi li ha proposti (esiste una farfalla tropicale dal nome generico di La Cucaracha), oppure sono motivo di giochi di parole, come lo Orizabus subaziro, uno scarabeide dal nome palindromo.

Chi si occupa di scienze naturali sa che la denominazione degli esseri viventi è regolata da criteri introdotti per evitare confusioni e ambiguità. La regola più nota è quella che ogni specie è caratterizzata da un duplice nome latino: il primo, scritto maiuscolo, indica il genere di appartenenza, il secondo, scritto minuscolo, indica la specie (ad esempio il gatto domestico è indicato da Felis catus). Un terzo termine può indicare la sottospecie. Dopo la denominazione scientifica sono di solito indicati l’autore e la data della pubblicazione in cui egli ha per primo descritto l’organismo (come in Homo habilis, Leakey et al., 1964). Questa descrizione deve fare riferimento a un campione conservato in una collezione scientifica o in un museo. Nel caso che più autori identifichino nel tempo la stessa specie, la priorità viene data al nome pubblicato per primo. Se, in base a studi ulteriori, la specie viene attribuita a un genere diverso, il nome del primo autore e la data vengono conservati tra parentesi. Esistono criteri leggermente diversi per la classificazione di animali, vegetali o batteri, ma ve li risparmio per non annoiarvi. Nulla vieta però che un animale o un vegetale possano avere lo stesso nome generico (come Adonis, pesce e ranuncolo, Cannabis, canapa e uccello, Ficus, pianta e gasteropode, Lactarius, fungo e pesce, ecc.)

Lo scopo di questo articolo non è quello di fornire una guida alle regole tassonomiche. La tassonomia qui utilizzata è affatto diversa, avendo lo scopo di classificare le curiosità riguardanti i nomi scientifici degli organismi. Iniziamo da quelle etimologiche.

Nomi ispirati da persone
Numerose sono le designazioni derivate da nomi di persone, appartenenti alle più diverse categorie. Naturalmente gli scienziati sono i più numerosi, così troviamo più di 120 specie e 9 generi che ricordano Darwin, mentre il nome scientifico della "mosca soldato", Wallacea darwini, riconosce anche a Alfred Russel Wallace i suoi meriti nel proporre la teoria dell’evoluzione. Si trovano poi Archimedes (briozoo), Copernicia (palma), la vespa Haeckeliania, il batterio Pasteurella, la piccola farfalla Leonardo davincii, ecc. L’arbusto mediterraneo Celsia linnaeus celebra sia Anders Celsius, l’inventore della scala centigrada, che era un botanico dilettante, sia Linneo (Carl von Linné), il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, che da questi fu incoraggiato nella sua attività.

Tra i nomi dedicati a filosofi e leader religiosi segnalo il mollusco Buddhaites, il dinosauro piumato Confuciusornis sanctus, la diatomea Dalai-Lama, la vespa Marxella e il ragno Plato. Dedicati a personaggi storici o politici sono, tra i molti, il mammifero del Cretaceo Maotherium (da Mao Zedong), l’orchidea boliviana Maxillaria gorbatchowii (da Mikhail Gorbaciov.), il fiore tropicale Napoleonaea imperialis. Un discorso a parte meritano Agathidium bushi, A. cheneyi e A. rumsfeldi Miller and Wheeler, 2005, dedicati ai vertici della passata amministrazione americana, non so se con intento celebrativo, dato che si tratta di specie di scarabei, e Anophthalmus hitleri Scheibel, 1933, il cui scopritore, un entomologo dilettante tedesco, deve aver avuto un bel coraggio a dedicare al dittatore nazista un coleottero cieco delle grotte slovene.

Il mondo delle arti è una fonte inesauribile di suggestione per i tassonomisti. Tra i nomi dedicati ai letterati segnalo, in aggiunta all’Arthurdactylus conandoylensis di cui ho parlato sopra, la vespa Aligheria, il dinosauro Serendipaceratops arthurcclarkei, omaggio allo scrittore di fantascienza Arthur C. Clarke, l’aracnide schizomida Draculoides bramstokeri, con riferimento al Dracula di Bram Stoker, la farfalla Nabokovia, che celebra la passione entomologica dell’autore di "Lolita". Tra i musicisti ricordati nei nomi generici o specifici sono presenti sia i classici, come l’imenottero Beethovena, l’ostracode Bishopina mozarti, la falena Fernandocrambus chopinellus, sia i moderni, con curiosità come l’acaro Funkotriplogynium iagobadius Seeman & Walter, 1997 da Iago, "James" e badius, "brown,", omaggio a James Brown, re del funk, e i numerosi generi di trilobiti cambriani dedicati a Miles Davis (Milesdavis Lieberman, 1994), ai Ramones (Mackenziurus johnnyi, M. joeyi, M. deedeei, M. ceejayi), a Paul McCartney (Struszia mccartneyi), agli altri Beatles (Avalanchurus lennoni, A. starri), ai Sex Pistols (Arcticalymene viciousi, A. rotteni, A. jonesi, A. cooki, A. matlocki). Esistono anche il gasteropode fossile Anomphalus jaggerius (da Mick Jagger) e il trilobite Perirehaedulus richardsi (da Keith Richards). Un ragno divoratore di formiche si chiama invece Myrmekiaphila neilyoungi. Anche gli italiani sono entrati in questa cerchia, con la farfalla Parnassius guccinii (immagine iniziale), dedicata a Francesco Guccini che, a sua volta, ha così intitolato un suo album.

Dal cinema provengono i nomi dei ragni giganti hawaiani Orsonwelles othello, O. macbeth, O. falstaffius, O. ambersonorum, ispirati a Orson Welles e ai suoi ruoli scespiriani, della formica Pheidole harrisonfordi, del coleottero carabide Agra schwarzeneggeri, del dittero Campsicnemius charliechaplini.

Segnalo anche i nomi delle tarme Microchilo elgrecoi, Microchilo murilloi e Pseudocatharylla gioconda, segno della grande passione per la pittura del naturalista polacco Bleszynski che le ha classificate negli anni ‘60.

Concludo la rassegna dei nomi ispirati a personaggi con un esempio tratto dallo sport. Il gasteropode marino Bufonaria borisbeckeri Parth, 1996deve il suo nome alla passione di un malacologo tedesco il quale, nello spiegare la scelta sulla pubblicazione scientifica, non ha esitato a definire Boris Becker “il più grande sportivo tedesco di tutti i tempi”.

Nomi ispirati dalla mitologia

Anche in questa categoria gli esempi sono numerosissimi e provengono dalle tradizioni di tutto il mondo. Mi limito a segnalarne alcuni per la loro curiosa etimologia.

Il dinosauro ceratopside Achelousaurus horneri Sampson, 1995, uno di quei grandi rettili estinti simili a rinoceronti, era privo di corno, pur essendosi evoluto da progenitori “cornuti”. Il suo nome deriva da Acheloo, una divinità fluviale dell’antica Grecia, il cui corno si ruppe durante un duello con Eracle. Il paleontologo Jack Horner (il cui cognome ha proprio a che fare con il corno) ha dichiarato che il nome specifico è una sorta di risarcimento per il corno perduto!

La grande sottoclasse di cefalopodi marini delle Ammoniti, estinta alla fine del Cretaceo, deve il nome al fatto che la forma spiralata del loro guscio ricorda il dio egizio Ammone, che veniva rappresentato con corna di montone. Plinio il Vecchio definì i fossili di questi animali ammonis cornua, "corni di Ammone". Spesso il nome delle specie di Ammoniti termina in -ceras, vocabolo greco il cui significato è, appunto, "corno". Il corno di Ammone è la cornucopia della tradizione romana. Coerentemente, una delle ammoniti più recenti finora conosciute, Anapachydiscus terminus, deve il suo nome specifico al nome di Terminus, dio romano dei confini e della fine.

Gli Pterosauri sono uno dei più importanti ordini estinti di rettili e sono stati i primi vertebrati in grado di volare. Il più grande pterosauro conosciuto aveva un'apertura alare di 10 m. Quanto mai azzeccato mi sembra il nome assegnatogli, Quetzalcoatlus northropi, in onore di Quetzalcoatl, nome azteco del Serpente piumato, una delle divinità più importanti per molte culture messicane e centro americane.


Nomi ispirati da personaggi letterari

Anche in questa categoria si è dato libero corso alla fantasia. Le mie note devono però essere brevi, pertanto segnalo solo i più curiosi.

Un ragno centroamericano fu denominato Bagherra kiplingi nel 1896, in ricordo della pantera nera Bagheera del "Libro della Giungla" di Rudyard Kipling. Ironia della sorte, si tratta del primo ragno vegetariano mai classificato.

Esiste anche un orchidea rosso-nerastra, che ricorda vagamente un pipistrello, alla quale si è affibbiato il nome di Dracula. Sempre in tema di creature inquietanti, il nome Pimoa cthulhu è stato attribuito a un ragno da uno studioso evidentemente appassionato di H. P. Lovecraft.

Lo Pseudione quasimodo è un isopode parassita che vive sotto il carapace del paguro eremita. Poiché presenta una distinta protuberanza sul dorso, l’associazione con il gobbo di Notre-Dame del romanzo di Victor Hugo è stata quasi una scelta obbligata.

I personaggi dei libri di J. R. R. Tolkien hanno ispirato numerosissimi nomi zoologici e botanici. Si trovano ad esempio l’anfipode Leucothoe tolkieni, il mammifero del Paleocene Earendil, l’esapode Gollumjapyx smeagol (che celebra entrambi gli appellativi del mostriciattolo), i coleotteri Macrostyphlus frodo, Macrostyphlus gandalf e Pericompsus bilbo.

L’ittiosauro giurassico Excalibosaurus presenta una protuberanza a forma si spada che si protende dalla mascella superiore. I suoi resti furono trovati nell’Inghilterra nord-occidentale, in cui la tradizione ambienta i romanzi del ciclo arturiano. Fu così che il paleontologo McGowan ebbe l’idea di dare a questo rettile marino il nome della spada di re Artù.


Nomi con riferimenti sessuali

“Non è necessario dirvi che nulla può uguagliare la grossolana indecenza della mente di Linneo. Una traduzione letterale dei primi principi della Botanica di Linneo è sufficiente per turbare il pudore femminile”. Così si esprimeva il reverendo Samuel Goodenough nel 1808. In effetti il sesso svolge un ruolo fondamentale in biologia, e non sorprende che possa comparire nei nomi degli organismi viventi. Vediamo in che modo.

La ragione principale delle ire del reverendo Goodenough verso Linneo è dovuta al nome che il naturalista svedese diede al fungo Phallus impudicus, per l’evidente somiglianza con un membro maschile eretto. Esiste tutta una famiglia di funghi con queste caratteristiche, conseguentemente chiamata Phallaceae. Un genere di piante erbacee della famiglia delle Aracee (quella del filodendro, per intenderci) deve all’aspetto dello spadice, la sua infiorescenza, il nome di Amorphophallus (“fallo senza forma”). Le specie appartenenti a questo genere sono un vero fiorire, è il caso di dirlo, di attributi: A. elegans, A. elatus, A. excentricus, A. gigas, A. hottae, A. impressus, A. interruptus, A. maximus, A. minor, A. odoratus, A. pendulus, A. purpurascens, A. pygmaeus, A. rugosus, A. spectabilis e A. titanum. Quest’ultima specie possiede la più grande, e puzzolente, infiorescenza conosciuta, che arriva a due metri e mezzo di altezza. Tra i nomi con riferimento all’organo sessuale maschile segnalo anche Ariolimax dolichophallus (“bel fallo”), una grande lumaca americana dall’intensa colorazione gialla, e i priapulidi (dal nome della divinità greca della fertilità), animali simili a vermi che abitano i fondali fangosi delle zone costiere di tutti i tipi di mari: sono noti comunemente come “vermi cactus”.

L’altro versante della sessualità umana è all’origine di nomi come Clitoria, genere di piselli con i fiori di forma tale da suggerire accostamenti piccanti, mentre i pesci ciprinidi Probarbus labeamajor e Probarbus labeaminor hanno labbra che rispettivamente ricordano le due parti esterne dell’organo sessuale femminile.

Pochi sanno che il nome delle orchidee, fiori noti per la loro bellezza, deriva dal greco orkhis, "testicolo", a causa dell’aspetto del loro pseudobulbo. Un tempo si pensava che le orchidee venissero generate dal seme degli animali maschi caduto durante l’accoppiamento. Non manca, infine, un mollusco bivalve chiamato Venus mercenaria, chissà poi perché.
Nomi derivati da acronimi o con etimologie curiose

Il corallo gorgonide Pangolinisis cia fu trovato attaccato a un cavo telefonico sottomarino presso l’Australia. Anche se è probabile che non stesse ascoltando le comunicazioni, lo zoologo Phil Alderslade pensò subito alla CIA.

Un rospo della foresta colombiana si chiama Atelopus farci, dal nome delle FARC, l’esercito guerrigliero che si oppone al governo. Se i gruppi di ribelli non si fossero rifugiati nella zona che costituisce l’habitat dell’anfibio, probabilmente essa sarebbe stata distrutta, e questa rara specie sarebbe rimasta sconosciuta alla scienza. Per essere politicamente corretti è doveroso allora citare la palma del Madagascar Dypsis mcdonaldiana, il cui nome è dovuto alla catena di ristorazione che ha finanziato la ricerca naturalistica.

Il muschio giamaicano Hymenodon reggaeus, secondo i ricercatori Karttunen e Back non poteva chiamarsi altrimenti.

Giochi di parole

Molti nomi di generi e specie sono curiosi a causa del loro suono, o perché esso è di per sé divertente, oppure perché esso ricorda altre parole. Ricordo qui il mollusco bivalve Abra cadabra, il trilobite Cindarella eucalla, il tricottero Rhyacophila tralala, le pulci Trombicula doremi e Trombicula fasola. Altri nomi sono stati scelti per il gusto del doppio senso, come il coleottero Colon rectum, la lumaca di mare Natica josephine, la falena Orgia nova.

Altri nomi divertenti sono: Balbaroo fangaroo (canguro dai lunghi canini – ricordo che in inglese canguro si dice "kangaroo"), la spugna Hoplochalina agogo, l’anatra variopinta Histrionicus histrionicus, il pesce Bullisichthys caribbaeus (da accostare all’appellativo offensivo inglese "bullshit").

Talvolta il gioco di parole è finalizzato all’insulto o alla presa in giro. I nomi dei pesci Rosenblattia robusta e Sphoeroides rosenblatti sono dedicati allo zoologo marino Richard Rosenblatt, che era alquanto grasso. La cimice Aphanus rolandri fu dedicata da Linneo in persona al suo discepolo Rolander, che aveva raccolto centinaia di campioni nello Suriname senza darne notizia a lui, per poterli pubblicare autonomamente. Il greco aphanus significa “ignobile, infame”.

Altre curiosità linguistiche ed enigmistiche

Talvolta i naturalisti si sono divertiti a utilizzare nomi che costituiscono veri esercizi linguistici o enigmistici.

Innanzitutto i record di lunghezza e di brevità. I nomi più lunghi assegnati a delle specie sono Griseotyrannus aurantioatrocristatus (uccello), Prolasioptera aeschynanthusperottetii (dittero), Prolasioptera aeschynanthusperottetii (batterio), fino all'incredibile Brachyta interrogationis interrogationis var. nigrohumeralisscutellohumeroconjuncta Plavilstshikov, 1936 (coleottero cerambicide). La palma dei nomi più corti spetta invece al pipistrello Ia io e alla vespa sfecide Aha ha. Il primo nome di genere in ordine alfabetico è quello del mollusco Aa, l’ultimo è quello dell’idra Zyzzyzus.

Per mancanza (o per perfido eccesso) di fantasia brilla lo zoologo Kearfott, che nel 1907 descrisse le seguenti specie di farfalle del genere Eucosma: Eucosma bobana, E. cocana, E. dodana, E. fofana, E. hohana, E. kokana, E. lolana, E. momana, E. nonana, E. popana, E. rorana, E. sosana, E. totana, E. vovana, E. fandana, E. gandana, E. handana, E. kandana, E. mandana, E. nandana, E. randana, E. sandana, E. tandana, E. vandana, E. wandana, E. xandana, E. yandana, E. zandana.

Alcuni nomi sono stati scelti da naturalisti burloni perché sono impronunciabili: Lainodon orueetxebarriai (mammifero fossile trovato nel paese basco), oppure Ekgmowechashala, primate fossile nordamericano il cui nome significa “piccolo uomo volpe” in lingua Lakota.

Altri studiosi si sono dilettati con gli anagrammi. W.E. Leach classificò nel 1818 i generi di crostacei isopodi Conilera, Lironeca, Nerocila, Olencira e Rocinela, che sono tutti anagrammi di Caroline, il nome di sua moglie. L’ostracode Rabilimis mirabilis anagramma il nome del genere con quello della specie, mentre i due generi di pesci Rhamphosternarchus e Sternarchorhamphus hanno nomi generici che sono uno l’anagramma dell’altro.

Dei palindromi ho già parlato a proposito di Orizabus subaziro, ma esistono anche il dittero Xela alex, l’imenottero Afgoiogfa, la mosca Aragara e altri esempi che per brevità vi risparmio.

Tra gli esempi di rime e allitterazioni cito il microfossile siliceo Adonnadonna primadonna, la scimmia urlatrice Alouatta ululata, lo scarabeo Chrysophora chrysochlora, la palma indonesiana Salacca zalacca (che sembra il titolo di un album dei Police) e la rana americana Rana bwana.


Numerosi sono i tautonimi, in cui il nome del genere è uguale a quello della specie (come ad esempio Vulpes vulpes, la volpe rossa, o Bufo bufo, il rospo). Il più lungo è stato assegnato all’uccello nero dal capo giallo Xanthocephalus xanthocephalus, ma esiste anche una sottospecie di fagiano cinese che è denominata Crossoptilon crossoptilon crossoptilon. Esistono anche casi in cui il nome del genere e della specie significano la stessa cosa in due lingue diverse, come nel caso dell’orso, Ursus arctos, (“orso” in latino e greco), dell’uccello marino americano Brachyramphus brevirostris (“becco corto” in greco e latino) e di altri ancora.

Concludo con gli ossimori, nei quali i due nomi si contraddicono a vicenda. È il caso del pipistrello Anoura caudifera (“senza coda caudato”), del pesce ofidide Spottobrotula amaculata (“baschetto macchiettato senza macchie”) e del giglio di Maggio Unifolium bifolium, che sfida il principio di non contraddizione più di altri.

Chi volesse sapere di più sulle curiosità della nomenclatura tassonomica può, tra i vari siti che se ne occupano, fare una capatina su Curious Taxonomy dell’americano Mark Isaac, che vi ha dedicato ampio spazio.

martedì 28 luglio 2009

Nino Pascolo: mafia e poesia

L'archivio segreto dei boss Lo Piccolo, padre e figlio, arrestati il 29 novembre 2007, sembra l’aggiornamento di un’enciclopedia sulla mafia. Ci sono gli affari, i nomi di tutti gli uomini d'onore, quelli degli informatori dei servizi, tutti gli appalti pubblici e privati, la mappa delle estorsioni, i resoconti e le richieste di pareri sulla vita ed i contrasti interni a Cosa nostra, con le lettere di Provenzano, Messina Denaro e di altri boss. Ma, a suscitare la nostra curiosità, l’archivio dei Lo Piccolo contiene una novità finora inimmaginabile: l’opera letteraria di un autore organico a Cosa Nostra, il primo vero autore mafioso, il catanese Nino Pascolo.

Di Nino Pascolo non si conosce molto. Nato il 31 dicembre 1955 a San Mauro di Romagna, dove il padre scontava il soggiorno obbligato, ritornò a Catania all’età di dodici anni, dopo che il genitore fu assassinato con una fucilata mentre tornava a casa. Le ragioni e gli autori del delitto rimasero per sempre oscuri (nonostante la famiglia nutrisse sospetti sull'identità dell'assassino, un altro siciliano al confino). Il trauma lasciò segni profondi nella vita di Nino. La famiglia andò incontro a un progressivo declino economico e poi subì una serie impressionante di altri lutti, disgregandosi. Pascolo dovette lasciare il liceo di Catania, avvicinandosi sempre più alla delinquenza organizzata.

Incarcerato per estorsione nel 1983, scomparve improvvisamente nel 1991 durante un permesso premio e gli inquirenti ritennero che si trattava dell’ennesimo omicidio di lupara bianca all’interno di una guerra tra cosche. Invece le carte dei Lo Piccolo lo classificano come uomo d’onore ancora nell’aprile 2006, riferendosi a lui come “il poeta”. E di vero poeta si tratta, con una solida preparazione teorica. Non interessato all’uso del dialetto siciliano, che pure vanta una gloriosa tradizione, Pascolo, come risulta da una sua lettera a Salvatore Lo Piccolo, è il primo mafioso a mettere in discussione l'idea consolidata secondo cui la poesia deve e può cantare solo argomenti nobili ed elevati, quali la famiglia o l’onore; inoltre, aprendo le porte della poetica alle "piccole cose", Pascolo schiude anche la lingua della poesia alle "piccole parole" della comunicazione quotidiana. È la tematica del “picciotto”, una costante che si ritrova in tutta la sua opera: “L'età avanzata non impedisce di udire la vocina del picciotto interiore, anzi invita forse e aiuta, mancando l'altro chiasso intorno, ad ascoltarla nella penombra dell'anima. E se gli occhi con cui si guarda fuor di noi, non vedono più, ebbene il vecchio uomo d’onore vede allora soltanto con quelli occhioni che son dentro di lui, e non ha avanti sé altro che la visione che ebbe da picciotto e che hanno per solito tutti i picciotti”.

Alla poetica delle “piccole cose” appartiene l’interesse per il mondo naturale, visto con l’incanto di picciotto e con una personale considerazione del rapporto con le vicende umane:

La lucciola
Il destino della lucciola è degno di lamento:
a lei la luce serve per il corteggiamento,
come se i maschi umani, per far l’amore,
girassero con una torcia accesa nel posteriore.

Delle vicende personali che lo hanno segnato profondamente troviamo testimonianza in una delle poesie contenute nell’archivio dei Lo Piccolo, nella quale emerge la disperazione per l’impossibilità di conoscere il nome dell’assassinio del padre e una certa qual insofferenza per una madre disposta per amore a dimenticare i codici etici di appartenenza:

La cavallina dorma
Nella Torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i picciotti del Rio Salto.
Erano i cavalli nella stalla indifferenti
agli urli della vecchia, ai suoi lamenti.
Pensava quella pazza di far parlare
una cavallina che voleva riposare,
fingendo di non sapere, la madame,
che un equino d’onore non fa l’infame.

La latitanza nei boschi dei Nebrodi ispira al poeta un canto insieme arcadico e angosciato:

Alla macchia
Errai nell’oblio della valle
tra ciuffi di stipe fiorite,
tra quercie rigonfie di galle;
errai nella macchia più sola,
per dove tra foglie marcite
spuntava l’azzurra vïola;
errai per i botri solinghi:
la cincia vedeva dai pini:
sbuffava i suoi piccoli ringhi
argentini.
Io siedo invisibile e solo
tra monti e foreste: la sera
non freme d’un grido, d’un volo.
Io siedo invisibile e fosco;
ma un cantico di capinera
si leva dal tacito bosco.
E il cantico all’ombre segrete
per dove invisibile io siedo,
con voce di sbirro ripete,
Io ti vedo!

Anche la morte violenta di un compare, ucciso in un attentato alla sua vettura, è occasione per il Pascolo di poesia:

L’attentato
E cielo e terra si mostrò qual era:
la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una Mercedes apparì sparì d’un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s’aprì si chiuse, nella notte nera.

Concludiamo questa breve rassegna (gran parte del materiale, comprese molte delle poesie del Pascolo, è ancora coperta dal segreto istruttorio), con un pensiero del poeta alle donne di strada, che egli vede non con l’occhio dello sfruttatore, ma con quello comprensivo e sensibile di chi apprezza le loro notturne fatiche:

Bottane
Siedon bottane a' pneumatici fumanti,
e il fuoristrada i biondi capi indora:
i biondi capi, i neri occhi stellanti,
volgono alla strada ad ora ad ora:
attendon esse a cavalieri erranti
che varcano la tenebra sonora?
Parlan d’amor, di clienti, di contanti:
così parlando aspettano l’aurora.

Un dubbio sta in questi mesi arrovellando inquirenti e critici. È di Pascolo anche il pizzino trovato nel covo di Provenzano e finora rimasto senza paternità?

Un giovane mafioso di Corleone
dei trenini aveva l’ossessione.
Gli arrivò questo pizzino:
“Picciotto non sei, sei cretino”.
Non fu capostazione, né capobastone.

Se, da un lato, non può non destare sorpresa vedere come Nino Pascolo abbia dimestichezza con un genere, il limerick, affatto estraneo alla tradizione italiana e alla sua produzione finora conosciuta, d’altro canto escludere la sua penna può voler dire che esiste, tra i vertici di Cosa Nostra o in contatto con essi, un altro autore di poesie. Il che aprirebbe nuove, inquietanti, prospettive.

sabato 25 luglio 2009

Altri indovinelli matematico-scientifici



Visto che la cosa mi diverte e pare sia stata apprezzata la volta scorsa, propongo alla vostra attenzione altri indovinelli. I primi due sono matematici (e la metrica può aiutare), gli altri tre riguardano… Che cosa riguardano?


Dall’angolo del ring

Sei
razionale?
Non
ti ho detto,
scemo,
di
metterti
così di sbieco
dentro il quadrato!


Lo scapolo

Si sa che è tal
che fa da sol,
e non sta mal:
se un dì gli va
di far di più
e dir di sì
dà il cor
e con amor!


Bastian contrario

Se gli inviassi un segnale positivo,
è la sua natura, lo sai,
lui senza pena
di certo
dirà
di
no.


Mastella

Se
ti
muovi
girando
tra i due poli,
per forza porterai con te
correnti, indotte dal variare di campo.


Innamorarsi di una trapezista

Colto da un calore che mai si frena,
fuggì verso il Circo con grande lena.
Il suo algido cuore
sì fuse nell’ardore.
Fu così che Lario lasciò Morena.

giovedì 23 luglio 2009

Nonsense italiano: Yorick figlio di Yorick



Il livornese Pietro Coccoluto Ferrigni (1836-1895), in arte Yorick figlio di Yorick, è stata una delle figure più originali del panorama letterario dell’Ottocento. Enfant prodige, dotato di grande memoria, laureato in legge, giornalista in grado di affrontare con competenza ogni argomento, brillante conferenziere, poeta e faceto umorista, traduttore dal francese e dallo spagnolo, fu anche patriota, militare e volontario garibaldino. Nella secondà metà del secolo divenne una delle firme più prestigiose e amate del panorama giornalistico italiano, per la padronanza perfetta della lingua, l’eleganza dello stile, l’arguzia sempre sottile, la finezza di giudizio.

Nel 1856 assunse il nome di Yorick ispirato dal personaggio dell'Amleto di Shakespeare; qualche anno più tardi, dopo la lettura del Viaggio sentimentale e de La vita di Tristam Shandy di Laurence Sterne (che si firmava Yorick), decise di modificare il proprio pseudonimo in Yorick figlio di Yorick.

La sua fama è legata soprattutto ad alcuni versi stravaganti, che ne fanno uno dei principali scrittori volontari di nonsense (ché ce ne sono anche stati di involontari) nel nostro paese. Le sue rime più note sono senza dubbio quelle di Parole per musica, scritte nel 1881 per la Strenna dell’Associazione della Stampa periodica in Italia:

Quando talor frattanto,
forse, sebben così;
giammai piuttosto alquanto
come perché bensì;

Ecco repente altronde,
quasi eziandio perciò,
anzi, altresì laonde
purtroppo invan però!

Ma se per fin mediante,
quantunque attesoché,
ahi! sempre, nonostante,
conciossiacosaché!


Ideato per mettere in ridicolo le insulsaggini di certi libretti d’opera, il componimento, conosciuto anche con il titolo di Mistero, non è tuttavia originale. Esso è largamente ispirato da un'analoga bizzarria francese pubblicata due anni prima sull’Intermédiaire, “à propos de chansons plus ou moins étranges”:

Toute ainsi comme,
De même, parce que,
Car aussi bien que;
Si toutefois pourtant,
Peut-être nonobstant,
En toujours, néanmoins!


La versione di Yorick è senz’altro migliore di quella francese, sia per l’armonia del verso, sia per la collocazione delle parole, che rende il componimento una vera e propria poesia senza senso.

Il Ferrigni era un vero maestro nello scrivere versi dall’apparenza seriosa e in realtà talmente assurdi da muovere al riso. Ne sono prova quelli che scrisse su un metro allora in voga tra gli ultimi romantici:

Una nave che salpa dal porto
Saltellando con passo scozzese,
è lo stesso che prendere un morto
per pagarlo alla fine del mese.
Salto di Socrate,
bacio di Giuda,
la donna è nuda…
Waterloò!


Tornando poi a infierire contro i librettisti d’opera, Yorick figlio di Yorick trasse questa “cavatina” basata sui controsensi:

Io ti amavo e non ti aborro
Quanto odiar può un cor gentile,
mentre immobile trascorro
un sentier che più non è.

Ah perché dovrà un covile
L’ampio arcano mio svelare?
Dell’aurora al tramontare,
deh! Conducimi con te.


E il tramontare dell’aurora fa ricordare i versi strampalati di un altro toscano, Gervaso Cerchiai, il quale, nella prima metà dell’Ottocento, recitava per strada, con lo scopo di far ridere gli amici, ottave come queste:

L’altra mattina, verso mezzanotte,
levavan certi frati il pozzo nero,
e una civetta nelle occulte grotte
cantava un’aria del Marin Faliero.
Intanto Aristodemo in una botte,
bestemmiando, domava un suo destriero,
e dai cassetti di un armadio vecchio,
mi venne una postema in un orecchio.


Fu invece involontario il nonsense del barone leccese Filippo De Raho, che nel 1859 pubblicò un inno in occasione del soggiorno in città di Ferdinando II di Borbone con il seguente incipit che ne fa piuttosto un seguace dell’Ingarrica:

Dall’occaso il sol sorgea…

E la mente corre allora a quell’episodio del film Ecce Bombo di Nanni Moretti, con la vana attesa dell’alba sul Tirreno, dove il sole non sarebbe mai sorto guardando verso il mare, o al Battiato esoterico di “Trovare l’alba dentro l’imbrunire”. Ma sto divagando.

Tornando a Yorick, un esempio del suo spirito è fornito dai testi delle conferenze che teneva sui più disparati argomenti. Il 28 febbraio 1882, alla Mostra della Società di “Scoraggiamento” alle Belle Arti di Firenze, tenne una prolusione sui bottoni nell'arte, suddivisa in due parti: influenza dei bottoni sullo sviluppo dell'arte e influenza dell'arte sullo sviluppo dei bottoni. Il discorso si sviluppa attraverso una costante allusione erotica che diventa spesso scoperto gioco sui meccanismi della seduzione. Il Ferrigni procede con una arguta dissacrazione sul tema del corpo nudo e del corpo vestito, partendo dalla foglia di fico e raggiungendo vertici di irresistibile malizia: se Eva si fosse potuta abbottonare la foglia, forse il genere umano avrebbe evitato le conseguenze del peccato originale. Non è azzardato leggere in curiose dissertazioni come queste l’annuncio dello spirito futurista.

Concludo segnalando alcuni aneddoti curiosi che lo riguardano. Comincio con un paio di epigrammi, come il bellissimo “M'han domandato ieri cosa è una pelliccia. E' una pelle che ha mutato bestia”, e il giudizio su un uomo politico importante, che “Sapeva poco e quel poco che sapeva lo diceva male”. Al Ferrigni è attribuita una curiosa epigrafe di cui a Firenze si parlò a lungo: sulla tomba di Donatello fu apposta una scultura che lo rappresentava morente, come un uomo deperito, ma di un’età solo matura, al massimo di 50 anni, senza considerare che Donatello morì ottantenne. Alla base del monumento qualcuno scrisse le seguenti parole, che parafrasavano la Traviata di Verdi: “Gran Dio morir si giovane, io che ho vissuto tanto!”.

Da toscanaccio irriverente, quasi anticipatore dei personaggi della serie Amici Miei, Yorick conservò il suo spirito fino alla fine. Registrò un suo contemporaneo: "Assalito contemporaneamente da varie e pur gravissime malattie, mentre stava sul letto doloroso, scrisse una cartolina ad un amico in cui descriveva, scherzando, d'esser diventato bianco, rosso e verde, e finiva: Viva l'Italia!. Due giorni dopo moriva".

domenica 19 luglio 2009

Tre indovinelli matematici



Quali enti matematici si nascondono dietro queste mie “poesie”? E che cosa suggerisce la loro strana metrica?


Ora d’aria

Dal raggio
tu
percorrevi
il
giro esterno:
ti fece un doppio rapporto
il boss.


La centometrista

E
ti
guardo
che corri
con progressione
muovendoti con un ritmo
elegante, di celestiale proporzione.


L’imprenditore

Cerco
la base naturale
per
fondare la mia impresa.
Quale?
Trasformare i prodotti
in
ricavi e addizioni:
basta
aver argomenti buoni.

giovedì 16 luglio 2009

McGonagall, il peggior poeta di lingua inglese


Se il maestro dell’idiozia poetica italiana è considerato da molti Ferdinando Ingarrica, di cui mi sono occupato qualche mese fa, William Topaz McGonagall (1825 o 1830 - 29 settembre 1902) è ricordato unanimemente come il peggior poeta di lingua inglese che sia mai esistito. Egli fu il più grande e unico estimatore della propria arte, completamente ignaro della propria bestialità. Vituperato ai suoi tempi, oggi gode di una schiera crescente di estimatori, attratti dall’orrore sublime della sua poesia, vero capolavoro di umorismo involontario.

Nato a Edimburgo da una famiglia di origini irlandesi, operaio tessile a Dundee, ebbe una vocazione tardiva. Scrisse a questo proposito: “Il fatto più eclatante della mia vita fa quando scoprii di essere un poeta, il che avvenne nell’anno 1877”, cioè quando aveva 52 anni. La sua prima opera fu An Address to the Rev. George Gilfillan, ode encomiastica di un predicatore, in cui già è possibile ravvisare tutta la cifra del suo stile. Ecco un estratto con un mio adattamento:

All hail to the Rev. George Gilfillan of Dundee,
He is the greatest preacher I did ever hear or see.
He is a man of genius bright,
And in him his congregation does delight,
Because they find him to be honest and plain,
Affable in temper, and seldom known to complain.
He preaches in a plain straightforward way,
The people flock to hear him night and day,
And hundreds from the doors are often turn'd away,
Because he is the greatest preacher of the present day.

Salute al Reverendo George Gilfillan di Dundee,
è il più grande predicatore che ho mai visto o sentito.
È un uomo di brillante ingegno,
e in lui si delizia la sua congregazione,
perché lo considerano onesto e semplice,
di indole affabile e raramente udito lamentarsi.
Predica in modo chiaro e diretto,
la gente accorre per udirlo notte e giorno,
e centinaia sono spesso lasciati fuori dalle porte,
perché è il più grande predicatore dei nostri giorni.

Gilfillan rispose con ammirabile ironia che “Shakespeare non scrisse mai nulla di simile”, con il risultato imprevisto che McGonagall si sentì inferiore al solo gigante di Stratford-on-Avon. Le caratteristiche del suo stile, fatto di versi contorti e scandalosi come questi, di uso maldestro delle metafore poetiche e totale indifferenza alle regole della metrica, non sarebbero mai cambiate per tutti i cinque lustri della sua carriera “artistica”, con una produzione di circa duecento componimenti.

La fama di McGonagall è dovuta principalmente alle sue poesie sul Tay Bridge. Nel 1877 fu inaugurato un ardito ponte ferroviario sul fiume Tay, decantato come un prodigio ingegneristico. Il nostro poeta, sensibile al progresso della tecnica, si sentì spinto a scrivere un poema in suo onore, regalandoci un esempio del suo stile inconfondibile:

Beautiful Railway Bridge of the Silvery Tay!
With your numerous arches and pillars in so grand array
And your central girders, which seem to the eye
To be almost towering to the sky.
(...)
Beautiful Railway Bridge of the Silvery Tay !
That has caused the Emperor of Brazil to leave
His home far away, incognito in his dress,
And view thee ere he passed along en route to Inverness.

Magnifico ponte ferroviario sull’argenteo Tay!
Con i tuoi numerosi archi e pilastri disposti così bene,
e le tue travi centrali, che paiono alla vista
essere quasi torreggianti verso il cielo.
(...)
Magnifico ponte ferroviario sull’argenteo Tay!
che ha spinto l’imperatore del Brasile a lasciare
la sua casa lontana, vestito in incognito,
per vederti mentre passava diretto a Inverness!

Due anni dopo la composizione dell’ode, il 29 dicembre 1879, una tremenda tempesta che devastò tutta la Scozia centrale fece crollare il ponte proprio mentre passava il treno per Edimburgo, provocando la morte di almeno ottanta dei duecento passeggeri. Fu una delle più gravi tragedie delle ferrovie britanniche, ancora oggi ricordata da molti La successiva inchiesta avrebbe rivelato gravi problemi di progettazione e l’uso di materiali scadenti. McGonagall vergò allora un’altra poesia, questa volta sul disastro:

Beautiful railway bridge of the Silv’ry Tay!
Alas! I am very sorry to say
That ninety lives have been taken away
On the last Sabbath day of 1879,
Which will be remember’d for a very long time

'Twas about seven o'clock at night,
And the wind it blew with all its might,
And the rain came pouring down,
And the dark clouds seem'd to frown,
And the Demon of the air seem'd to say-
"I'll blow down the Bridge of Tay."
(…)
It must have been an awful sight,
To witness in the dusky moonlight,
While the Storm Fiend did laugh, and angry did bray,
Along the Railway Bridge of the Silv'ry Tay,
Oh! ill-fated Bridge of the Silv'ry Tay,
I must now conclude my lay
By telling the world fearlessly without the least dismay,
That your central girders would not have given way,
At least many sensible men do say,
Had they been supported on each side with buttresses,
At least many sensible men confesses,
For the stronger we our houses do build,
The less chance we have of being killed.

Magnifico ponte ferroviario sull’argenteo Tay!
Ahimè! Sono costernato nell’affermare
che novanta vite sono state portate via
nell’ultimo sabato del 1879
che sarà ricordato per un tempo assai lungo.

Erano circa le sette della sera
e il vento soffiava con tutto il suo vigore,
e la pioggia scendeva giù a cascate,
e le nubi scure parevano accigliate
e il Demone dell’aria sembrava dire:
“Demolirò il ponte sul Tay!”
(…)
Dev’essere stata una spaventosa visione
assistere alla luce oscura della luna,
mentre il Diavolo della Tempesta rideva e ragliava iroso
lungo il ponte ferroviario dell’argenteo Tay.
Oh! Infelice ponte ferroviario dell’argenteo Tay,
devo ora concludere il mio carme lamentoso,
dicendo al mondo senza tema e tentennamento
che le tue travi centrali non sarebbero state distrutte,
così almeno dicono gli uomini con discernimento,
se fossero state rinforzate da speroni su ogni lato,
almeno molte persone sensibili hanno provato,
che tanto più forti costruiamo le nostre case
meno possibilità abbiamo di finire uccisi.

Questa poesia è diventata di gran lunga la più famosa del bardo di Dundee, forse perché è indicativa della sua carriera sfortunata e delle sue scelte tematiche (fu cantore di disastri, lutti e tragedie come nessun altro mai). Ma la vicenda non si conclude qui. Una volta che il ponte fu ricostruito, McGonagall, senza alcuna vergogna, compose una terza ode in onore del nuovo manufatto, sempre con i pilastri in so grand array, anche se questa volta strong enough all windy storms to defy!

Beautiful new railway bridge of the Silvery Tay,
With your strong brick piers and buttresses in so grand array,
And your thirteen central girders, which seem to my eye
Strong enough all windy storms to defy.
And as I gaze upon thee my heart feels gay,
Because thou are the greatest railway bridge of the present day,
And can be seen for miles away
From North, South, East or West of the Tay .

Magnifico nuovo ponte ferroviario sull’argenteo Tay,
con i tuoi forti pilastri di mattoni e speroni disposti così bene,
e le tue tredici travi centrali, che mi appaiono
forti abbastanza da sfidare tutte le ventose tempeste.
E quando ti fisso il mio cuore si sente allegro,
perché tu sei il più grande ponte ferroviario dei nostri giorni,
e puoi essere visto da molte miglia
da Nord, Sud, Est e Ovest del Tay.

McGonagall si impegnò con forza contro l’alcolismo, presentandosi nei locali per recitare poesie e tenere discorsi edificanti. La sua totale mancanza di talento, tale da rasentare la genialità, lo rese celebre in città al punto che andare a vederlo diventò un popolare passatempo. Egli, indifferente all’ilarità che suscitava, ai commenti mordaci, al lancio di uova e verdure, continuava le sue esibizioni missionarie. Vi è stato persino chi ha visto in lui un anticipatore della performance art, decenni prima dei dadaisti e dei futuristi.

Aveva anche delle velleità di attore, ma senza grandi soddisfazioni economiche e con la stessa attitudine del poeta. In alcune occasioni fu lui a pagare il teatro per avere il privilegio di recitare, che gli veniva concesso perché la sua presenza assicurava il tutto esaurito al botteghino. Fu alla fine cacciato dal teatro di Dundee quando, mentre recitava nel ruolo di Macbeth, pensò che l’attore che interpretava McDuff potesse oscurarlo e si rifiutò di morire, tra il tripudio generale.

Sempre più spiantato e in cerca di danaro, partecipò al concorso indetto da una fabbrica di sapone per un componimento pubblicitario. Lo vinse, e così l’opera più pagata a McGonagall fu l’Ode to Sunlight Soap (Ode al sapone Sunlight), che gli valse la ricompensa di due ghinee. I versi più commoventi così recitano:

You can use it with great pleasure and ease
Without wasting any elbow grease:
And when washing the most dirty clothes
The sweat won’t be dripping from your nose (…)
And I tell you once again without any joke
There’s no soap can surpass Sunlight Soap.’

Potete usarlo con gran diletto e agio
senza sprecare olio di gomito:
e quando gli abiti più sporchi avrete lavato
il sudore sul vostro naso non sarà gocciolato (…)
E ve lo dico ancora una volta senza scherzare,
non c’è sapone che il Sunlight può superare.

McGonagall fu così felice della generosa ricompensa datagli dai committenti che scrisse una poesia di ringraziamento che termina con queste righe:

And in conclusion, gentlemen, I thank ye
William McGonagall, Poet, 48 Step Row, Dundee.

E in conclusione, signori, vi ringrazia qui
William McGonagall, Poeta, 48 Step Row, Dundee.

Nel 1892, dopo la morte del poeta laureato William Tennyson, McGonagall fece a piedi tutta la strada da casa sua a Balmoral, residenza reale estiva (circa 60 Km), sperando di persuadere la regina Vittoria a nominarlo al suo posto. Sfortunatamente, Sua Maestà non era nella residenza e il poeta, come confessò nelle sue note autobiografiche, fu costretto a tornarsene indietro deluso.

McGonagall, alla fine vinto dall’ostilità dei concittadini, si trasferì per qualche anno a Perth, non senza intraprendere un viaggio a Londra e uno a New York. Tornato a Dundee, morì senza un soldo ed è sepolto nella città natale di Edimburgo nel cimitero della chiesa dei Frati Grigi (e non a Londra, nell’abbazia di Westminster, come avrebbe voluto). Ma la sua fama in Scozia è seconda solo a quella di Robert Burns.

mercoledì 15 luglio 2009

Tre lettere di Jacques Roubaud



1

Ho appena ricevuto la tua ultima lettera e ti rispondo immediatamente. Mi chiedi se ho ricevuto la tua ultima lettera e se ho intenzione di rispondere.

Mi permetto di farti notare che l’invio della tua ultima lettera fa sì che la lettera che mi hai inviato in precedenza non è più ormai la tua ultima lettera e che se rispondo come sto facendo alla tua ultima lettera, non rispondo a quella che è ora la tua penultima lettera. Non posso quindi soddisfare la richiesta che mi fai nella tua ultima lettera.

Osservo d’altra parte che la tua ultima lettera non risponde, contrariamente a quanto affermi, ti cito: “ho ricevuto la tua ultima lettera e rispondo immediatamente”, alla lettera in cui ti domandavo, se non erro (ma non mi sbaglio, ho la copia) se tu avevi ricevuto la mia ultima lettera e se avevi intenzione di rispondere.

In assenza di chiarimenti e di risposte da parte tua su questi due punti ai quali attribuisco (a ragione, penso) una certa importanza, mi vedrò, mio malgrado, costretto a interrompere la nostra corrispondenza.

2

Non ho ancora ricevuto la tua prossima lettera, ma rispondo immediatamente. In essa mi chiedi se ho ricevuto la tua ultima lettera e se ho intenzione di rispondere. Forse ti chiederai come, non avendo ancora ricevuto la tua prossima lettera, io possa sapere che mi chiedi se ho ricevuto la tua ultima lettera e se ho intenzione di rispondere.

La risposta è semplice: tutte le tue lettere, e questa sarà la trecentodiciasettesima (le ho tutte, come ho le copie di tutte le mie lettere), cominciano con “Hai ricevuto la mia ultima lettera? Se sì, e sarei fortemente sorpreso che tu non l’abbia ancora ricevuta (se fosse il caso, fammelo sapere), hai intenzione di rispondere?”

È così che cominciava la prima lettera che ho ricevuto da te. È così che cominciava la seconda, la terza, e così di seguito fino alla tua ultima lettera, la trecentosedicesima.

Ragionando dunque per induzione, ne deduco che la tua prossima lettera comincerà come le precedenti. Mi considero perciò autorizzato a rispondere come se l’avessi già ricevuta.

E ti rispondo così:

“Ho appena ricevuto la tua ultima lettera e ti rispondo immediatamente. Mi chiedi se ho ricevuto la tua ultima lettera e se ho intenzione di rispondere.

Mi permetto di farti notare che l’invio della tua ultima lettera fa sì che la lettera che mi hai inviato in precedenza non è più ormai la tua ultima lettera e che se rispondo come sto facendo alla tua ultima lettera, non rispondo a quella che è ora la tua penultima lettera. Non posso quindi soddisfare la richiesta che mi fai nella tua ultima lettera.

Osservo d’altra parte che la tua ultima lettera non risponde, contrariamente a quanto affermi, ti cito: “ho ricevuto la tua ultima lettera e rispondo immediatamente”, alla lettera in cui ti domandavo, se non erro (ma non mi sbaglio, ho la copia) se tu avevi ricevuto la mia ultima lettera e se avevi intenzione di rispondere.

In assenza di chiarimenti e di risposte da parte tua su questi due punti ai quali attribuisco (a ragione, penso) una certa importanza, mi vedrò, mio malgrado, costretto a interrompere la nostra corrispondenza”.

3

Ho appena letto la tua prima lettera: datata 23 novembre 1960. Tu mi hai dunque scritto, in media, da quella data, una lettera ogni sei settimane e due terzi – non c’è mai stato un intervallo di meno di sei e di più di sette settimane tra due tue lettere – e qualcosa mi ha colpito:

Mi scrivevi, te lo ricordo, nel caso che tu l’abbia dimenticato: “Hai ricevuto la mia ultima lettera? Se sì, e sarei fortemente sorpreso che tu non l’abbia ancora ricevuta (se fosse il caso, fammelo sapere), hai intenzione di rispondere?”

Ora, non ho alcuna traccia nei miei archivi, nei quali conservo in modo sistematico e assoluto tutte le lettere che ricevo e le copie di tutte quelle che invio, non ho alcuna traccia, dicevo, di una tua lettera anteriore a quella del 23 novembre 1960, della quale ti ho appena ricordato la prima frase.

Né, d’altra parte, e ciò è almeno assai sconcertante, di quella mia lettera alla quale fai allusione a metà della tua lettera del 23 novembre 1960 che, nei miei archivi, porta, di mia mano, scritta in alto a destra del quarto di foglio 21x27, formato dal quale non ti sei mai separato in tutti questi anni, a matita, il numero 1.

Tuttavia mi ricordo - non si può più chiaramente - dell’arrivo della tua lettera del 23 novembre 1960. Ero appena rientrato in casa dopo una riunione di lavoro con degli amici. La scrittura mi era sconosciuta, così come la firma, Q. B. Non conosco ancora, dopo quarant’anni, altro delle tue generalità se non le iniziali. Risposi immediatamente e la nostra corrispondenza, quarant’anni dopo, dura ancora.

Come mi dici in quella stessa lettera, quella del 23 novembre 1960, tu conservi nei tuoi archivi le copie di tutte le lettere che invii come di tutte quelle che ricevi (informazione che non manchi di ripetere, lo noto rileggendo la nostra corrispondenza in tutte, dico bene tutte, le tue lettere), tu hai certamente conservato la copia di quella di cui parli all’inizio della lettera del 23 novembre 1960. Potrai pertanto chiarire facilmente questo piccolo mistero.


Jacques Roubaud (1932) è un poeta, romanziere e saggista francese docente universitario di matematica. Fu cooptato nell’Oulipo nel 1966 su proposta di Raymond Queneau. La sua opera, di difficile classificazione, mostra diversi centri d’interesse per il sovrapporsi di poesia e prosa, realtà e finzione, letteratura e matematica. Lui stesso si è definito come un “compositore di matematica e di poesia”. La sua opera più famosa è il ciclo di “pseudoromanzi” incentrato attorno al personaggio della Belle Hortense. Ha introdotto in Francia l’affascinante gioco orientale del Go. Come tutti gli oulipiani è inventore di contraintes e non disdegna talvolta di scrivere testi divertenti.

sabato 11 luglio 2009

Queneau e la matematica



Uno scrittore poliedrico

Raymond Queneau (1903-1976) è stato uno dei più prolifici ed eclettici scrittori francesi del secolo scorso. La sua vivacità intellettuale ha dato luogo a un’opera molteplice, con una produzione originale, talvolta giocosa e, per certi versi, inclassificabile. Tra le sue opere più note sono gli Exercices de style (1947), opera geniale e provocatoria, in cui un brano formato da due paragrafi, in cui sono descritte delle vicende affatto banali, viene declinato in 99 versioni diverse, ciascuna con uno stile differente. Il libro è stato pubblicato in italiano con la competente traduzione di Umberto Eco (“Esercizi di stile”, Einaudi, 1983). Riporto un paragrafo del brano originario (Notazioni) e l’esercizio derivato in stile Geometrico:

NOTAZIONI. Sulla S, in un’ora di traffico. Un tipo di circa ventisei anni, cappello floscio con una cordicella al posto del nastro, collo troppo lungo, come se glielo avessero tirato. La gente scende. Il tizio in questione si arrabbia con un vicino. Gli rimprovera di spingerlo ogni volta che passa qualcuno. Tono lamentoso, con pretese di cattiveria. Non appena vede un posto vuoto, vi si butta.

GEOMETRICO. In un parallelepipedo rettangolo generabile attraverso la linea retta d’equazione 84x + S = y, un omoide A che esibisca una calotta sferica attorniata da due sinusoidi, sopra una porzione cilindrica di lunghezza l>n, presenta un punto di contatto con un omoide triviale B. Dimostrare che questo punto di contatto è un punto di increspatura.

Al di là di questo gioco letterario, una delle costanti che è possibile ravvisare nell’opera di Queneau è l’interesse per la scienza (qui un esempio) e, in particolare, proprio per la matematica. Ho analizzato in un articolo precedente l’aspetto combinatorio a proposito dei Cent mille milliards de poèmes (1961), libro singolare composto da dieci sonetti in cui ognuno dei rispettivi 14 versi, aventi le stesse rime e la stessa costruzione sintattica, è ritagliato su una striscia di carta. I versi possono essere combinati fino ad offrire appunto centomila miliardi di poesie.

La fascinazione di Queneau per i numeri fu precoce: alcune pagine del suo diario di adolescente già lo dimostrano chiaramente. A 17 anni annota: “Sono andato con Leroux al Museo. Studio con furore la matematica”. Alcuni dei suoi saggi, pubblicati in Bords (1963) e in Bâtons, chiffres et lettres (1965, in italiano “Segni, cifre e lettere e altri saggi”, Einaudi, 1981) contengono talvolta considerazioni sulle serie di Fourier, su Hilbert, su Bourbaki, e sulle “congetture errate nella teoria dei numeri”. Dal punto di vista più strettamente narrativo, la matematica compare sia come struttura (al punto da sfiorare in alcuni casi l’aritmomania), sia come soggetto, come ad esempio in Odile (1937, pubblicato in italiano da Einaudi nel 1989).


Odile

Odile non è un romanzo matematico, anche se il suo protagonista, Roland Travy, è un matematico dilettante fallito. Si tratta invece della duplice storia di una vicenda amorosa e di un’infatuazione intellettuale. La prima, quella tra Travy e Odile, l’eroina nascosta che dà titolo all’opera, termina bene. La seconda, quella di Travy per il cenacolo surrealista il cui capo Anglarès è la parodia di André Breton, termina male (e si tratta di una vicenda autobiografica perché Queneau era stato surrealista alla fine degli anni ’20, abbandonando il movimento con disprezzo per i suoi deliri onirici) .

La matematica ricopre un ruolo portante nella narrazione, un ruolo che è puramente estetico e mai didascalico (diversamente da opere come Il teorema del pappagallo di Hans Guedj o Il mago dei numeri di Hans Magnus Enzensberger). Tanto meno Queneau fa uso della matematica per creare metafore. In Odile la matematica è utilizzata per dipingere l’identità del protagonista, che in essa cerca rifugio, e come struttura narrativa, in grado cioè di creare effetti ed emozioni. Quando Travy parla di matematica, riporta con precisione alcuni teoremi come si potrebbero trovare in un manuale. Ecco il suo sfogo durante un colloquio con Odile:

“Gettai uno sguardo inutile su un foglio di carta che si attardava sul mio tavolo: dati due rami regolari semplici a diramazioni alterne, trovare il numero dei loro punti di intersezione in funzione di dodici quantità da cui dipende la loro rappresentazione simbolica in rapporto a due assi di coordinate. Ci volevano sei quantità per rappresentare senza ambiguità una tale figura geometrica, era là, pretendevo una delle mie scoperte, in effetti una semplice constatazione che fino a quel momento io non sapevo dedurre nulla. Presi un quaderno; vi erano dei calcoli su una nuova classe di numeri di cui mi credevo il padre, numeri formati di due elementi estremi di una doppia ineguaglianza. Essi presentavano rispetto alle tre operazioni diverse dall’addizione delle proprietà estremamente curiose che non arrivavo a spiegarmi chiaramente; delle ricerche su ciò che chiamavo l’induzione di serie infinite e l’integrale di Parseval, su ciò che definivo l’addizione a destra e quella a sinistra dei numeri complessi e l’importanza di queste operazioni per l’analisi combinatoria. Numeri, numeri, numeri...”


Un dilettante competente

Nel suo rapporto con i numeri, Queneau considerò sempre se stesso un dilettante (nel vero senso della parola), un “buongustaio di cifre”. Ciò non gli impedì di essere aggiornato su suoi sviluppi attraverso letture specifiche, una pratica costante, e la partecipazione ai seminari dei maggiori matematici operanti a Parigi. In un saggio incompiuto del 1942, Brouillon projet d’une atteinte à une science absolue de l’histoire, pubblicato nel 1966 con il titolo Une histoire modèle, Queneau tentò di conciliare gli studi di matematica applicata alle scienze biologiche e sociali del matematico e fisico italiano Vito Volterra (1860-1940) con le teorie sulla ciclicità della storia, per tentare di proporre un modello applicabile all’evoluzione della storia umana.

Nel 1948 entrò nella Société mathématique de France e, dal 1963, fu membro dell’American Mathematical Society. Da quell’anno partecipò ai seminari di ricerca operazionale e di calcolo dei grafi. Dal suo diario sappiamo che negli anni Cinquanta partecipava alle riunioni di Bourbaki e che incontrava regolarmente a cena il logico matematico austriaco Georg Kreisel (1923), che allora insegnava a Parigi, con il quale discuteva delle principali innovazioni matematiche.

Nel 1960 Queneau, sempre più attratto dalle possibilità offerte dalla combinatoria e dalla matematica in genere alla genesi letteraria, con un gruppo di scrittori e matematici tra i quali François Le Lionnais e Claude Berge, fondò l’Oulipo (Ouvroir de littérature potentielle). Il termine “potenziale” si riferisce a qualcosa che esiste in potenza nella letteratura, cioè che si trova all'interno del linguaggio e che non è stato necessariamente esplorato. Strumento prediletto per lo studio e la produzione è la contrainte, una restrizione formale arbitraria che possa creare nuovi procedimenti, nuove forme e strutture letterarie suscettibili di generare poesie, romanzi, testi. Nel corso degli anni sono state esplorate decine di contraintes diverse, da quelle in qualche modo legate all’enigmistica, come il palindromo, l’acrostico, il lipogramma, a forme più direttamente legate ai codici delle scienze esatte, come il calcolo combinatorio, la teoria degli insiemi o la teoria dei grafi. Fra le numerose definizioni dell'Oulipo fornite dagli stessi membri, una è assai elegante e significativa: “Un Oulipiano è un topo che costruisce il labirinto da cui si propone di uscire più tardi”. La “filosofia” di questo gruppo tuttora attivo e ramificatosi in diversi paesi, tra cui l’Italia (come Oplepo), è che l’uso delle contraintes conduce l’autore a un maggiore sforzo immaginativo e può generare opere di assoluto interesse e qualità.

Nella vasta bibliografia di Queneau, a dimostrazione del radicamento del suo interesse e della competenza acquisita, è presente persino una vera e propria pubblicazione matematica. Si intitola Sur les suites S-additives (e il lettore accorto avrà notato l’allitterazione…).


Le serie s-additive

Sur les suites s-additives fu presentato da André Lichnerowicz come nota all’Accademia delle Scienze francese durante la seduta del 6 maggio 1968 e in seguito fu pubblicato (in francese!) sul Journal of Combinatorial Theory (12, p. 31, 1972) con la presentazione di Giancarlo Rota. In 41 pagine si succedono definizioni, teoremi con le loro dimostrazioni e un certo numero di congetture, tutti frutto dell’elaborazione di Queneau nel campo della teoria dei numeri.

Cerco di illustrarne i contenuti principali, partendo dal concetto più semplice: le serie 0-additive o serie non additive. Una serie non additiva è costituita nel seguente modo:

si parte da una base di k numeri interi strettamente positivi, disposti in ordine crescente (a1, a2, a3, ..., ak);

si prosegue la costruzione della serie rispettando la regola secondo la quale, per tutti gli n>k, an è il più piccolo numero intero superiore a an −1 che non può essere scritto come somma di due termini distinti della serie di rango inferiore a n.

Ad esempio, se consideriamo la base (1, 6, 8), il numero 9 non è un termine della serie in quanto 9 = 8+1. Al contrario, 10, che non può essere scritto come somma di due termini qualsiasi presi all’interno dell’insieme (1; 6; 8) è il termine successivo della serie. Si avrà dunque (1, 6, 8), 10, ... Con analogo ragionamento si può far proseguire la serie con i numeri 12, 15, 17, 19, 24, 26, 28, 33, 35, 37, 42, 44, ... .

Si noti che la regola di costruzione della serie non si applica ai termini della base, per cui un suo termine può essere la somma dei due termini precedenti. Ad esempio, nella base (3, 4, 6, 9, 10, 17) si ha 9 = 3+6 e 10 = 6+4.

Queneau incomincia a costruire e studiare un certo numero di serie 0-additive. La base (1, 3) genera così nient’altro che la serie dei numeri dispari, mentre (2, 6) genera (2, 6), 7, 10, 11, 14, 15, 19, 22, 23, ... . Poi constata che, nella maggior parte dei casi, le differenze tra due termini successivi di una serie 0-additiva divengono assai rapidamente periodiche, ripetendosi indefinitamente all’interno di un ordine dato.

Riprendiamo il primo esempio, (1, 6, 8), riscrivendo la serie e interponendo tra i termini successivi la loro differenza, scritta in rosso:

(1, 5, 6, 2, 8), 2, 10, 2, 12, 3, 15, 2, 17, 2, 19, 5, 24, 2, 26, 2, 28, 5, 33, 2, 35, 2, 37, 5, 42, 2, 44, ... .

Si osserva che, a partire da un certo rango, sembrano ripetersi le differenze 5, 2 e 2. In effetti è possibile verificare che le differenze sono periodiche e che, con l’eccezione di 12, i termini della successione appartengono a tre progressioni aritmetiche di ragione 9:

1 + 9p,
6 +9p,
8 + 9p.

Un tale fenomeno si osserva nella maggior parte dei casi, dopo eventuali “perturbazioni” per l’occorrenza di termini in soprannumero o, al contrario, di termini mancanti. Consideriamo un secondo esempio con la serie 0-additiva di base (6,10):

6, [9], 10, 11, 12, 13, 14, 15, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 51, 52, 53, 54, 55, 56, 72, 73, 74, 75, 76, 77, 93, 94, 95, 96, 97, 98, ...

Come i colori hanno messo in evidenza, i termini di questa serie appartengono a cinque progressioni aritmetiche di ragione 21, fatta eccezione per i due termini 6 e 15 e per il 9, assente dalla prima progressione e perciò inserito tra parentesi quadre.


La congettura di Queneau

Queneau ha dimostrato nel suo lavoro la periodicità delle differenze successive delle serie 0-additive di base (1, n) e (2, n). I suoi risultati sono raggruppati nel seguente schema:

Per gli altri valori di n, e per basi più complicate, Queneau congettura che le differenze presentino sempre delle periodicità, ma fino ad oggi non si è potuto dimostrare nulla e il problema, tutt’altro che semplice, resta aperto. L’americano Steven Finch, che si è occupato delle serie di Queneau, dopo il calcolo di più di un milione e mezzo di termini con l’ausilio del computer, ha trovato una base di sei termini, (3, 4, 6, 9, 10, 17), che sembra non consentire di trovare un periodo.

Le serie 1-additive

Per definire le serie 1-additive è sufficiente sostituire “che non può essere scritto come somma di due termini distinti della serie di rango inferiore a n” con “che può essere scritto esattamente in un solo modo come somma di due termini distinti della serie di rango inferiore a n”.

Consideriamo allora la serie 1-additiva (2, 3), che prosegue con 5 (5 = 2+3), con 7 (7 = 2+5), con 8 (8 = 3+5) e poi con 9, 13, 14, 18, 19, 24, ... . Non rientrano in questa serie i numeri come 4 o 6, che non possono essere scritti come somma di due termini precedenti, né i numeri come 10 o 11, che possono essere scritti in più di un modo come somma di due termini precedenti (in effetti, 10 = 2+8 = 7+3 e 11 = 3+8 = 2+9). Se si prosegue la costruzione di questa serie, non si riconosce alcuna struttura. Al contrario, la base (4, 5), studiata da Queneau, conduce a un periodo di 32 termini, dopo un primo “pseudoperiodo” contenente degli elementi perturbatori!

Queneau affronta anche lo studio della serie di base (1, 2), conosciuta come serie di Ulam, dal nome del grande matematico polacco-americano Stanislaw Ulam (1909-1984) che per primo l’ha studiata. Questa serie sembra sfidare ogni regolarità:

(1, 2), 3, 4, 6, 8, 11, 13, 16, 18, 26, 28, 36, 38, 47, 48, 53, 57, 62, 69, 72, 77, 82, 87, 97, 99, 102, 106, 114, ... .

In definitiva, il comportamento delle serie 1-additive pare assai più complicato di quelle delle serie non additive.


Gli altri valori di S

Si definiscono le serie S-additive come quelle serie in cui ciascun termine, a partire da un certo rango, “può essere scritto esattamente in S modi come somma di due termini distinti della serie”. Ad esempio, si può costruire la serie 2-additiva (1, 2, 4, 5), 6, 7, 8, 10, 13, ... perchè ciascun termine può essere scritto esattamente in 2 modi come somma di due termini che lo precedono (6 = 1+5 = 2+4; 7 = 1+6 = 2+5; ecc.). La serie (1, 2, 3, 5, 6, 7), 8, 9, 10, 12, 14, ... è 3-additiva, perché 8 = 1+7 = 2+6 = 3+5 e 9 = 1+8 = 2+7 = 3+6; ecc.

La costruzione e lo studio di queste serie si fanno via via sempre più complicate. È tuttavia possibile stabilire che, per S>6, numerose serie S-additive non presentano più un numero infinito di termini, ma diventano convergenti.


La serie di Dickson

L’idea di Queneau nel caso delle serie 0-additive era già stata esplorata circa quarant’anni prima dal matematico americano Leonard Eugene Dickson (1874-1954), per quanto in una forma leggermente diversa. In un articolo del 1934 Dickson studia le serie costruite a partire da una base di k numeri interi strettamente positivi, disposti in ordine crescente (a1, a2, a3, ..., ak), con la seguente regola di costruzione: per tutti gli n>k, an è il più piccolo numero intero superiore a an −1 che non può essere scritto come somma di due termini distinti oppure no della serie di rango inferiore a n. Se consideriamo la base (1, 6, 8) utilizzata come primo esempio, possiamo verificare come il criterio della distinzione oppure no differenzi le serie dei due studiosi:

Queneau: (1, 6, 8), 10, 12, 15, 17, 19, 24, 26, 28, 33, 35, ...
Dickson: (1, 6, 8), 10, −, 15, 17, 19, −, 26, 28, 33, 35, ...

Come si può notare, il 12 non fa parte della serie di Dickson, in quanto 12 = 6+6. Lo stesso succede per 24 = 12+12.


Non un semplice esercizio di stile

Le serie s-additive basate sui numeri naturali non sono certamente degli oggetti matematici eccezionali, tuttavia il loro studio è interessante per delle motivazioni essenzialmente metodologiche. La loro definizione fa ricorso a due concetti aritmetici elementari: l’addizione e la disuguaglianza. Le loro proprietà essenziali (divergenza o convergenza, regolarità o casualità) manifestano una notevole sensibilità alla variazione dei parametri iniziali. Questa caratteristica fa sì che da definizioni elementari possono essere generati oggetti matematici non lineari, difficilmente esplicitabili e valutabili. Ciò fa delle serie s-additive, al pari di quella dei numeri primi (di cui Ulam è stato uno studioso), una palestra ideale per lo studio dei sistemi complessi. Non a caso si è incontrato il nome di Ulam. Egli esaminò la sua serie nel quadro di uno studio iniziato nel 1961 intitolato On some mathematical problems connected with patterns or growth of figures (in Problems in Modern Mathematics, Interscience, 1964), legato ai modelli di automi cellulari ai quali si stava interessando anche John Von Neumann. Le serie di Queneau si inseriscono in questa prospettiva e non costituiscono affatto lo sterile “esercizio di stile” matematico di un dilettante ispirato.


martedì 7 luglio 2009

Queneau, Calvino e lo stirene



Nel 1957 il gruppo industriale Pechiney commissionò al regista Alain Resnais un filmato pubblicitario sull’utilità della plastica. Dalla collaborazione con Raymond Queneau, che scrisse il commento fuori campo in versi alessandrini impeccabili, nacque un oggetto di straordinaria perfezione estetica e, a suo modo, paradossale. Il filmato, intitolato Le Chant du Styrène è infatti il prodotto di una serie di restrizioni: a quella esterna (la commissione della Pequinay), Queneau ne aggiunse altre, con un procedimento che preannuncia gli sviluppi oulipiani, come la scelta del commento in versi e la narrazione rovescia, che procede dall’oggetto finito (una ciotola di plastica) per rimontare, attraverso il processo industriale di fabbricazione del polistirene a partire dallo stirene, alle origini delle materie prime, il petrolio e il carbone.

Dal canto suo, Resnais assecondò la narrazione con grande tecnica nel montaggio e con la scelta del colore. Il commento musicale fu affidato a Pierre Barbaud, creatore della musica algoritmica e pioniere della programmazione musicale con l’ausilio del computer. Il testo fu affidato alla voce narrante di Pierre Dux. Il cortometraggio, che dura 14 minuti e si apre con una citazione di Victor Hugo, uscì l’anno successivo.

Le Chant du Styrène
O temps, suspends ton bol, ô matière plastique
D'où viens-tu ? Qui es-tu ? et qu'est-ce qui explique
Tes rares qualités ? De quoi donc es-tu fait ?
D'où donc es-tu parti? Remontons de l'objet
À ses aïeux lointains ! Qu'à l'envers se déroule
Son histoire exemplaire. Eu premier lieu, le moule.
Incluant la matrice, être mystérieux,
Il engendre le bol ou bien tout ce qu'on veut.
Mais le moule est lui-même inclus dans une presse
Qui injecte la pâte et conforme la pièce,
Ce qu présente donc le très grand avantage
D'avoir l'objet fini sans autre façonnage.
Le moule coûte cher; c'est un inconvénient.
On le loue il est vrai, même à ses concurrents.
Le formage sous vide est une autre façon
D'obtenir des objets : par simple aspiration.
À l'étape antérieure, soigneusement rangé,
Le matériau tiédi est en plaque extrudé.
Pour entrer dans la buse il fallait un piston
Et le manchon chauffant - ou le chauffant manchon
Auquel on fournissait - Quoi ? Le polystyrène
Vivace et turbulent qui se hâte et s'égrène.
Et l'essaim granulé sur le tamis vibrant
Fourmillait tout heureux d'un si beau colorant.
Avant d'être granule on avait été jonc,
Joncs de toutes couleurs, teintes, nuances, tons.
Ces joncs avaient été, suivant une filière,
Un boudin que sans fin une vis agglomère.
Et ce qui donnait lieu à l'agglutination ?
Des perles colorées de toutes les façons.
Et colorées comment ? Là, devint homogène
Le pigment qu'on mélange à du polystyrène.
Mais avant il fallut que le produit séchât
Et, rotativement, le produit trébucha.
À peine était-il né, notre polystyrène.
Polymère produit du plus simple styrène.
Polymérisation : ce mot, chacun le sait,
Désigne l'obtention d'un complexe élevé
De poids moléculaire. Et dans un réacteur,
Machine élémentaire oeuvre d'un ingénieur,
Les molécules donc s'accrochant et se liant
En perles se formaient. Oui, mais - auparavant ?
Le styrène n'était qu'un liquide incolore
Quelque peu explosif, et non pas inodore.
Et regardez-le bien; c'est la seule occasion
Pour vous d'apercevoir ce qui est en question.
Le styrène est produit en grande quantité
À partir de l'éthyl-benzène surchauffé,
Le styrène autrefois s'extrayait du benjoin,
Provenant du styrax, arbuste indonésien.
De tuyau en tuyau ainsi nous remontons,
À travers le désert des canalisations,
Vers les produits premiers, vers la matière abstraite
Qui circulait sans fin, effective et secrète.
On lave et on distille et puis on redistille
Et ce ne sont pu là exercices de style :
L'éthylbenzène peut - et doit même éclater
Si la température atteint certain degré.
Quant à l'éthylbenzène, il provient, c'est limpide,
De la combinaison du benzène liquide
Avecque l'éthylène, une simple vapeur.
Ethylène et benzène ont pour générateurs
Soit charbon, soit pétrole, ou pétrole ou charbon.
Pour faire l'autre et l'un l'un et l'autre sont bons.
On pourrait repartir sur ces nouvelles pistes
Et rechercher pourquoi et l'autre et l'un existent.
Le pétrole vient-il de masses de poissons ?
On ne le sait pas trop ni d'où vient le charbon.
Le pétrole vient-il du plancton en gésine ?
Question controversée... obscures origines...
Et pétrole et charbon s'en allaient en fumée
Quand le chimiste vint qui eut l'heureuse idée
De rendre ces nuées solides et d'en faire
D'innombrables objets au but utilitaire.
En matériaux nouveaux ces obscurs résidus
Sont ainsi transformés. Il en est d'inconnus
Qui attendent encor la mutation chimique
Pour mériter enfin la vente à prix unique.


Oggi, che conosciamo la tossicità dello stirene (e la sua sospetta cancerogenicità, dato IARC), che piangiamo gli operai morti nei petrolchimici per effetto della sua manipolazione, un tale testo può sorprendere, ma erano tempi diversi e del composto chimico ci si lamentava solo per la puzza. La plastica prometteva di cambiare la vita quotidiana degli uomini e lo avrebbe fatto, rendendola più comoda. Non passarono che pochi anni e Gino Bramieri, dai teleschermi di Carosello, avrebbe invaso le case degli italiani con il suo tormentone del Moplen.


Nel giugno 1985 Vanni Scheiwiller ricevette l'incarico dalla Montedison di realizzare una strenna natalizia per i suoi principali clienti e fornitori. L'editore, che conosceva il lavoro di Queneau per Resnais, contattò Italo Calvino per la traduzione di Le Chant du Styrène, contando sulla lunga amicizia tra i due scrittori e sulla loro comune appartenenza all’Oulipo. Calvino accettò, anche se il lavoro propostogli non era affatto facile, in particolar modo per le sue scarse conoscenze chimiche. Scrisse allora a Primo Levi, chimico di formazione, per avere chiarimenti sulla traduzione di alcune parole. Dalla lettera di Calvino del 10 agosto 1985 si possono avere informazioni sul metodo di lavoro assai scrupoloso dello scrittore ligure: “Questo che ti mando è un primo tentativo per farmi la mano a trovare delle rime (senza le quali poco rimarrebbe dello spirito di Q.) seguendo il significato con qualche libertà. Ho tentato di mantenere la metrica dell’Alessandrino italiano di 14 sillabe (settenario doppio) che lascia abbastanza libertà di movimento, per cui spero di poter riaggiustare versi e rime dopo le tue osservazioni. Ti sarò dunque grato se potrai dirmi dove ho preso fischi per fiaschi e dove non ho usato i termini giusti” (…) “Ho usato qualche volta polistirolo anziché polistirene fidandomi dei dizionari che li danno come sinonimi”.


Tredici giorni dopo, non contento, Calvino scriveva anche a Scheiwiller: “Potresti chiedere alla Montedison del materiale che possa essermi utile? Non dico un manuale ma qualche opuscolo o prontuario elementare. Ti accludo una lista di termini tecnici che non so se si possono tradurre letteralmente in italiano. L’ideale sarebbe trovare un ingegnere della plastica capace di entrare nello spirito di Queneau e di spiegarmi i punti oscuri; ma non so se si trovi. Naturalmente ho pensato a Primo Levi e gli ho subito mandato testo e traduzione;mi ha telefonato subito molto divertito e non ha trovato niente da ridire dal punto di vista chimico, ma per la parte meccanica e relativa terminologia ha potuto risolvere solo alcuni dei miei dubbi perché questo non è il suo ramo”.


La traduzione fu comunque completata nei tempi concordati e il colosso chimico poté far dono a circa tremila privilegiati di un elegante fascicolo illustrato da un'acquaforte di Fausto Melotti contenente la poesia di Queneau con a fronte la traduzione di Italo Calvino.

Il canto dello stirene

Tempo ferma la forma! Canta il tuo carme, plastica!
Chi sei? Di te rivelami lari, penati, fasti!
Di che sei fatta? Spiegami le rare tue virtù.
Dal prodotto finito risaliamo su su
ai primordi remoti, rivivendo in un lampo
le tue gesta gloriose! In principio, lo stampo.
Vi sta racchiusa l'anima; del lor grembo in balia
nascerà il recipiente, o altro oggetto che sia.
Ma lo stampo a sua volta lo racchiude una pressa
da cui viene la pasta iniettata e compressa,
metodo che su ogn'altro ha il vantaggio innegabile
di produrre l'oggetto finito e commerciabile.
Lo stampo costa caro; questo è un inconveniente,
ma lo si può affittare, anche da un concorrente.
altro sistema in uso permette di formare
oggetti sotto vuoto, per cui basta aspirare.
Già prima il materiale, tiepido, pronto all'uso
viene compresso contro una filiera:
ossia spinto all'ugello per forza di pistone;
lo scalderà il cilindro al punto di fusione.
E lì che fa il suo ingresso nel bollente crogiolo
il rapido, il vivace, il bel polistirolo.
Lo sciame granuloso sul setaccio si spinge,
formicola felice del color che lo tinge.
Prima di farsi granulo, somigliava a un vibrante
spaghetto variopinto: chiaro, scuro, cangiante.
Una filiera trae, dall'estruso finito,
gli spaghi che una vite senza fine aggomitola.
E l'agglutinazione come si fa ad averla?
Con perle varipinte: un colore ogni perla.
Ma colorate come? Diventerà uno solo
il pigmento omogeneo dentro il polistirolo.
Prima certo bisogna asciugarlo per bene
il rotante prodotto, dico il polistirene,
il nostro neonato, il giovane polimero.
Del semplice stirene, ma nient'affatto effimero.
Designa, già lo sai,
il modo di ottenere più elevati che mai
pesi molecolari; non hai che a far girare
un reattore idoneo: mi sembra elementare.
Come perle in collana, legate l'una in cima
All'altra, tu incateni le molecole ... E prima?
Lo stirene non era che un liquido incolore
coi suoi scatti esplosivi e un sensibile odore.
Osservatelo bene: non perdete le rare
occasioni che s'offrono di vedere e imparare.
E' dall'etilbenzene, se lo surriscaldate,
che stirene otterrete, anche in più tonnellate.
Lo si estraeva un tempo dal benzoino, strano
figlio dello storace, arbusto indonesiano.
Così, di arte in arte, pian piano si risale
dai canali dell'arido deserto inospitale
verso i prodotti primi, la materia assoluta
che scorreva infinita, segreta, sconosciuta.
Lavando e distillando quella materia prima,
Esercizi di stile meglio che in prosa o in rima –
l'etilbenzene il quale, com'è noto, proviene
dall'incontro d'un liquido che sarebbe il benzene
mischiato all'etilene che è un semplice vapore.
Etilene e benzene hanno per genitore
o carbone o petrolio oppure entrambi insieme.
Per fare l'uno e l'altro, l'altro e l'uno van bene.
Potremmo ripartire su questa nuova pista
cercando come e quando e l'uno e l'altro esistano.
Dimmi, petrolio, è vero che provieni dai pesci?
E' da buie foreste, carbone, che tu esci?
Fu il plancton la matrice dei nostri idrocarburi?
Questioni controverse ... Natali arcani e oscuri ...
Comunque è sempre in fumo che la storia finisce.
Finché non viene il chimico, ci pensa su e capisce
il metodo per rendere solide e malleabili
le nubi e farne oggetti resistenti e lavabili.
In materiali nuovi quegli oscuri residui
eccoli trasformati. Non v'è chi non li invidii
tra le ignote risorse che attendono un destino
di riciclaggio, impiego e prezzi di listino.

domenica 5 luglio 2009

Parole inventate 2: pazzi veri e pazzi letterari



Nella prefazione dell’imperdibile Aga Magéra Difùra – Dizionario delle lingue immaginarie (Zanichelli, 1994), Paolo Albani e Berlinghiero Buonarroti cercano di mettere un po’ d’ordine nello sterminato panorama dell’invenzione linguistica. Nel loro documentatissimo repertorio, Albani e Buonarroti distinguono innanzitutto le lingue inventate di carattere sacro, il cui scopo è di «“comunicare” con il divino o comunque di dar voce ad un mondo spirituale non rappresentabile con il linguaggio ordinario», dalle «lingue di carattere non sacro, tipologia che comprende da un lato i progetti di comunicazione a scopo sociale e dall’altro le sperimentazioni più o meno artistiche».

Tralascio le lingue inventate di carattere sacro (glossolalie religiose, lingue iniziatiche, linguaggio dell’estasi, linguaggi magici, divinatori, sciamanici, ecc.) per concentrare l’attenzione sull’invenzione linguistica “profana”. Di questa, una parte cospicua è costituita dalle lingue inventate con lo scopo di essere in qualche modo utili, come le centinaia di lingue ausiliarie internazionali di cui l’esperanto è solo l’esempio più conosciuto, ma anche i linguaggi logico-matematici, quelli dei segnali, i linguaggi abbreviati (stenografie), le crittografie, ecc. A una seconda specie possono essere ricondotte le lingue nate in determinati contesti sociali, come i gerghi, i linguaggi ibridi (pidgin, spanglish), i linguaggi settoriali (di cui nel nostro paese sono tipici esempi il politichese o il sindacalese), la cui utilità non è intenzionale, almeno all’inizio.

Esiste infine la serie delle lingue e delle parole inventate a scopo di gioco o con intento puramente espressivo, alle quali ho fatto cenno nel mio precedente articolo. Su queste mi piace tornare. Innanzitutto per fare una doverosa aggiunta: non sono solo i poeti e i bambini a inventare parole e linguaggi, perchè grandi onomaturghi sono anche i pazzi e gli alienati. Di loro mi occupo in questo articolo.

La tendenza a creare parole con gradi diversi di artificialità è assai comune tra i malati di mente o dai medium. Lo psicologo Eugenio Tanzi, secondo il quale almeno il 30% dei paranoici sono inventori di parole, raccolse nel 1889 una serie di 239 neologismi di pazzi ricoverati nei manicomi italiani, da dominusmotspherifateur a pitroskoi marabiska patomba lemba zagamba strapùlika!, che sembra una specie di scongiuro. Sigmund Freud studiò il caso di Daniel Paul Schreber (1842-1911), Presidente della Corte d’Appello di Dresda, inventore di una “lingua fondamentale”, lingua parlata da Dio e appreso dalle anime beate durante il loro processo di purificazione. Si tratta di un tedesco arcaico, caratterizzato da un’abbondanza di eufemismi, paralogismi e antifrasi, per cui per cibo si dice “veleno” e per sacro si dice “empio”. Lo psichiatra Jaroslav Stuchlìk, in un saggio del 1960, si sofferma invece sul caso di un medico ceco creatore di 17 lingue totalmente inventate, ciascuna con una sua propria grafia. Allo studioso non sfugge l’aspetto ludico di questa megalomania onomaturgica. In un altro suo studio, Stuchlìk analizza il caso di un operaio di circa sessant’anni che disegna strane figure unendo sempre gli stessi sei elementi: un pesce, una ragazza, un succhiotto, una vacca, una macchina e un bruco. Il nome di questo ibrido grafico è un ibrido verbale, una mega parola-valigia resa in francese con poisucevamachenille (poisson, pucelle, sucette, vache, machine, chenille).

Tragico è invece il caso di Friedrich Hölderlin (1770-1843). Quando, intorno al 1822, il diciottenne Wilhelm Waiblinger comincia a frequentarlo, il grande poeta tedesco è malato di mente e vive ormai da quindici anni recluso nella "Torre" della casa del falegname Ernst Zimmer in riva al Neckar, confuso, isolato dal mondo. Non è più, insomma, "da considerarsi tra i vivi". Va su e giù come "le fiere ... nelle loro gabbie", suscitando in Waiblinger un brivido di orrore, recita giorno e notte un monologo incessante. Scrive Waiblinger: “«Si esita dubbiosi prima di bussare a quella porta, dominati da un interiore inquietudine; infine si bussa e una voce forte e veemente invita ad entrare. Si entra e al centro della stanza appare una magra figura che si inchina profondamente e si produce in complimenti eccessivi, con gesti che sarebbero pieni di grazia se non esprimessero un che di spasmodico. Le poche espressioni di circostanza vengono accolte con le più cortesi riverenze e con discorsi del tutto privi di senso, che sconcertano l’estraneo. L’estraneo si sente apostrofare "Sua Maestà", "Sua Santità", "Gentile signor Padre". Hölderlin non uscirà più da quella stanza fino alla sua morte, nel giugno 1843.

Un sintomo psicotico noto agli psichiatri è la verbigerazione (o catafasia o “insalata di parole”), che consiste nella ripetizione di parole o frasi sprovviste di senso, sebbene i sintagmi, presi isolatamente, siano per lo più intellegibili. Un esempio di questo fenomeno è la logorrea di Madame Ch., citata da André Breton nel suo Dictionnaire abregé du surréalisme (1938):

Je suis le devoir du Tri-Mistère, tri mystère du Finistère, des Trelendious et de trédious, des trébendious. Le gim de l’air de l’erme, le giderme, le citerme, le cimeterme de l’arterme, le gim de l’air de l’airme, le citerme, le cin de terme de la terme en terme, le gim de l’air en trème.


Una categoria assai interessante di inventori di neologismi è costituita dai foux litteraires, i folli letterari, cioè quelle persone che pubblicano, di solito a loro spese, vaneggiamenti scientifici, storici o religiosi che non rimandano a dottrine anteriori e che non hanno eco alcuna nella società in cui vivono. Tecnicamente immuni da patologie certificate, i pazzi letterari non hanno né maestri né discepoli. Di loro, e in particolare dei compilatori di lingue universali si è occupato Raymond Queneau in una sua “Enciclopedia delle scienze inesatte” compilata negli anni ’30, rifiutata dall’editore e uscita poi in forma romanzata (Les Enfants du Limon, 1938). Tra i folli neologisti di Queneau ricordo Sèbastien-François Drojat, che nel 1857 sosteneva di aver trovato la Chiave maestra della Torre di Babele nella lingua degli antichi galli Voconti, «lingua contubernale [cameratesca, NdR] di tutte le razze umane», e il sedicente Le Quen d’Entremeuse che nel 1852 sosteneva che le parole più importanti e le principali radici della lingua dei primi uomini sono una riproduzione dei rumori del tuono e dei latrati del cane.

Lo stesso poliedrico e geniale Queneau può essere fatto rientrare nella categoria, se si pensa al suo tentativo di inventare il neo-francese, una lingua basata sulla sintassi e il lessico del linguaggio parlato e su un’ortografia più o meno fonetica. Di queste sue idee si trova testimonianza in alcuni saggi raccolti in Bords (1963) e in Bâtons, chiffres et lettres (1965, in italiano “Segni, cifre e lettere e altri saggi”, Einaudi, 1981). Questa sua divertita stravaganza è testimoniata dal linguaggio con il quale è scritto Zazie nel metrò (1959) e si esprime la sua protagonista (si è parlato di “zazismi”). Ecco alcuni esempi: Singermindépré (Saint-Germain des Prés), pour moi zossi (pour moi-s-aussi) e il geniale Apibeursdè touillou (Happy birthday to you). E’ evidente che la grafia storpiata ha anche lo scopo di rendere la velocità del linguaggio parlato.

Un altro antologizzatore di folli onomaturghi è stato il belga André Blavier, nel libro Les fous littéraires (Parigi, 1982). Egli parla ad esempio del notaio francese Jacob-Abraham Soubira (1788-1842), inventore di un alfabeto numerico. Nella poesia intitolata 666, pubblicata nel 1828, egli profetizza il destino dei continenti prima della fine del secolo. Eccone un estratto:

Le 19me siècle hissera de l’orage!
Son mondain zéphir
En altérera le paysage
Et déracinera le vizir!

Le 19me siècle dégradera le paganisme,
Fera mourir l’Alcoran,
Marteler le vandalisme
Et rogner le Vatican!


(Il diciannovesimo secolo alzerà della tempesta! / Il suo vento mondano / ne muterà il paesaggio / e sradicherà il Visir! [nel senso lato dell’Impero Ottomano]. // Il diciannovesimo secolo degraderà il paganesimo, / farà morire il Corano, / martellare il vandalismo / e potare il Vaticano!).

Soubira afferma che la somma delle lettere di ciascuno dei 37 versi della sua opera corrisponde a 666. Il suo alfabeto è privo della lettera J, iniziale di Judas, che così viene scritto Geudas. Secondo questo alfabeto cabalistico ogni parola cela un significato numerico. Il destino di questo profeta di provincia non fu glorioso: finì i suoi giorni vendendo le sue profezie scritte su foglietti volanti nelle fiere di paese.

Un altro caso preso in considerazione da Blavier è quello del poliglotta, matematico, cabalista e umanista francese Guillaume Postel che, in una pubblicazione del 1538, cercò di dimostrare che tutte le lingue moderne hanno una radice comune nell’antico ebraico, identificato con il “samaritano” o con il “fenicio”. Tale ipotesi, con numerose varianti, era abbastanza comune ai suoi tempi, e Postel non si discosta molto da figure contraddittorie eppure geniali di maghi-scienziati come Paracelso o Johann Valentin Andreae. Ma nel 1553 Postel sostenne in un altro scritto che il secondo redentore dell’umanità sarebbe stata una donna, la quale avrebbe instaurato il regno di Sophia, la Sapienza. Non contento, affermava di aver trovato la nuova Eva, rigeneratrice del mondo, identificata in una vecchia italiana, chiamata “la madre Giovanna” o “Zuana”, fondatrice dell’Ospedaletto di Venezia. Due anni dopo l’Inquisizione lo definì non malus, sed amens (non colpevole, ma pazzo).

A dir la verità, aggiungo io, anche un’altro personaggio illustre cadde nell’errore di Postel, cioè il teorico del socialismo Pierre-Joseph Proudhon, che nell’Essai de grammaire générale del 1837 sosteneva che “tutte le lingue derivano da una lingua comune e prima”, parlata dal genere umano al tempo in cui la nostra specie era costituita da qualche centinaio d’individui. Queste sue tesi suscitarono poi l’ironia di Marx, che parlò di “scritto da scolaretto” che prova la “disinvoltura” del francese in questa come in altre questioni.

Curiosa è poi la riforma proposta dall’ingegnere belga Falkenburg, che verso la fine del XIX secolo presentò all’Accademia delle Scienze di Bruxelles una proposta di “sconvolgimento completo” dell’ortografia, basata su una “tavola dei suoni semplici” (25 vocali e 26 consonanti) delle sette lingue prese in considerazione. Su questa base, "quartier" diventa kàartyé e "foi" viene scritta fwa.

Uno dei casi più noti di invenzione linguistica è quello della medium ginevrina di origine ungherese Catherine-Èlise Mueller (1861-1929), nota con lo pseudonimo di Hélène Smith. Nel corso di una serie di sedute spiritiche organizzate da un gruppo teosofico locale, si immaginò protagonista di tre “romanzi” ambientati rispettivamente nell’India del XV secolo, sul pianeta Marte e nella Francia dei libri di Dumas padre. Nei primi due si immaginò la conoscenza della lingua indù e di quella marziana. I testi di queste pseudolingue, raccolti da Théodore Flournoy in un saggio del 1900, furono fatti analizzare dagli esperti dell’Università della città svizzera e in particolare dal grande linguista Ferdinand de Saussure, che analizzò testi come questo “indù”:

... goya vayayâni prityiya kriya gayâni i gôya mamata goya mama nara moma patii si goya gandaryâ gaya itiyami vasanta...

concludendo che si trattava di pura invenzione. I testi marziani, scritti in un alfabeto vagamente simile ai segni che indicano i pianeti, vanno da sinistra a destra, possiedono 21 segni e sono privi di accenti e punteggiatura. All’analisi dei linguisti, la lingua marziana della medium rivelò una base francese con lessico comprendente parole ungheresi e tedesche deformate. Rimproverata per questo da Flournoy, la Smith inventò allora un’altra lingua, detta neo-marziana, parlata dagli abitanti di un pianetino presso Marte e anche una lingua uraniana. Ecco un esempio del neo-marziano:

Vanem sebim mazak tatak sakam:
(nome di animale) nascosto malato triste piange

Hélène Smith divenne in seguito la musa della “scrittura automatica” dei surrealisti, che videro in lei la prova del potere conoscitivo della trance ispirata. Chi vuole praticare la scrittura automatica può ancora oggi farlo con la guida di qualche maestro spirituale, prenotando uno dei tanti weekend new-age in un agriturismo, tra incensi e campane tibetane, a prezzi accessibili ai più abbienti. Aum!